domenica, 24 Settembre 2023

“NON SONO FEMMINISTA…” AHI!

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E’ l’argomento all’ordine del giorno: il femminicidio. Si propone una legge che protegga le donne dalla violenza, perché, si dice, quelle attuali non le proteggono abbastanza. Eppure, anche con la legislazione attuale, quando una violenza viene denunciata si dovrebbe intervenire. Il guaio è che, se a denunciare è una donna e la violenza che denuncia proviene da un familiare, si tende a sottovalutare la cosa, a pensare che in famiglia prima si litiga e poi si fa la pace. Così l’arroganza del padre-padrone si sente in qualche modo autorizzata dalla società, dalle istituzioni stesse.

Pensare che le donne avevano lottato perché fosse riconosciuta loro parità di diritti e soprattutto parità di rispetto. Erano gli anni ’60-’70, era l’epoca del femminismo, quando, forse anche con manifestazioni eclatanti ed esagerate, si era sbattuta in faccia al mondo la necessità della donna di appartenere a se stessa, di scegliere come essere rifiutando di accettare come gli altri (padri, mariti, le madri stesse) volevano che fosse. Molte battaglie allora erano state vinte e le donne pensarono che la stagione della lotta fosse finita, che il mondo civile finalmente avesse capito e fosse disposto a esercitare il necessario rispetto. Fu allora che si cominciò a sentir dire una frase che avrebbe dovuto mettere paura: “non sono femminista, però…”. Come un mettere le mani avanti per dissociarsi da qualcosa che apparteneva ad altri, a una pletora di scalmanate facinorose da ridicolizzare un po’ e tenere distanti. Eppure quella pletora di scalmanate facinorose aveva lottato, si era sacrificata anche attirandosi addosso, consapevolmente, il ridicolo, per il bene di tutte. Sì, questa presa di distanza avrebbe dovuto mettere paura, invece non ci si faceva caso, anzi la si apprezzava.

Così, quando spuntarono le veline, alle quali si chiedeva solo di essere giovani, belle e di sapersi muovere a tempo di musica, e quando diventare una velina cominciò a essere la massima aspirazione di qualsiasi minorenne, bella o brutta che fosse (sì, anche brutta, tanto c’è la chirurgia plastica, che rende tutte belle e tutte uguali), non si capì o non si volle capire che la donna stava nuovamente precipitando nel baratro dal quale il femminismo l’aveva appena tirata fuori, che stava inevitabilmente ritornando un oggetto, quindi qualcosa da usare, da possedere, insomma quanto di più lontano da una persona.

Se i colpevoli di femminicidio sono i mariti, i padri, i fratelli, che fanno della violenza una forma d’amore (dicono loro!), è innegabile una corresponsabilità da parte delle vittime, cioè delle donne, che, dopo la battaglia in parte vinta dalle tanto ridicolizzate femministe, non hanno saputo mantenere le posizioni, non hanno saputo opporsi alla strumentalizzazione che di loro veniva fatta dai media, non hanno saputo scegliere di affrontare il mondo col petto in fuori pur se con le tette piccole. E così tutte le postazioni conquistate si sono perse e le donne si sono ritrovate nella vecchia trincea, dove non appartenevano più a se stesse ma ad altri. Caporetto, insomma. Adesso c’importa relativamente che lo Stato promulghi una legge contro il femminicidio, ma ci aspettiamo, anzi pretendiamo, che le donne riprendano coscienza di se stesse e tornino sul campo di battaglia, riconquistino le postazioni perdute e procedano oltre, finché non divenga chiaro a tutti, e specialmente a loro stesse, che sono persone, persone che devono poter scegliere, sempre, persone alle quali nessuno può imporre niente, nemmeno la pettinatura. Quando ci guarderemo intorno e vedremo donne belle che non siano cloni l’una dell’altra o donne brutte fiere della propria bruttezza, quello potrà essere un segnale della consapevolezza di sé indispensabile per non candidarsi al ruolo di vittima.

Intendiamoci, quanto detto fin qui è ben diverso dal concetto malato di attribuire a una minigonna la provocazione che vorrebbe giustificare un’aggressione. Pretendiamo, semmai, che anche la donna più provocante possa indossare la minigonna senza rischiare la propria incolumità, ma siamo convinti che per arrivare a questo si debba cambiare il sentire sociale e questo non potrà accadere se non saranno le donne, per prime, a pretenderlo riaffermando di nuovo la loro indipendenza dagli stereotipi sociali, culturali o subculturali. Anche rischiando il ridicolo, se occorre. Come le donne di quarant’anni fa.

 

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