In Italia, si sa, lo sport più amato e seguito è il calcio. Ovvio dunque che questo porti inevitabilmente grossi vantaggi a chi lo gestisce. Si tratta senza dubbio di vantaggi economici, ma, ancor più, di visibilità e potere. Come stupirsi dunque che il tifo, da sempre, sia stato abilmente convogliato, attraverso gli organi d’informazione, verso quelle squadre legate, per mezzo dei loro proprietari, al potere, un potere che aspirava e aspira a crescere sempre di più per fagocitare tutto? E’ ovvio che i media non bastano a rendere una squadra forte, così si è proceduto a gestire quegli “aiutini” indispensabili a cavar fuori dall’impiccio provocato dall’esplosione sportiva imprevista di una formazione che del centro destinato al potere non faceva parte. Qualche volta è stato dimostrato e provato, qualche altra c’è stato ma nessuno si è preso la briga di provarlo. Parlando di “aiutini” verrebbe da pensare al rigore eclatante sfacciatamente negato o al gol in fuorigioco altrettanto sfacciatamente convalidato, ma in realtà, come spiegò un arbitro a un amico, i più intenzionali sono quelli che si attuano attraverso la gestione delle ammonizioni e la regia stessa della gara che mette i calciatori nelle condizioni di sbagliare. Non staremo qui a spiegare le strategie, perché non è specificatamente di questo che intendiamo occuparci oggi. Piuttosto vogliamo osservare come nel calcio si metta avanti in ogni situazione il concetto di “etica dello sport”, tanto è vero che, solo per fare un esempio, il calciatore che simula di aver ricevuto un fallo viene ammonito per questo, perché si tratta di una cosa antisportiva, ed è giustissimo; magari poi quel calciatore il fallo l’ha ricevuto davvero ma quell’ammonizione serve a fargli saltare la partita seguente e mettere la sua squadra in condizione d’inferiorità rispetto alla prossima avversaria, ma questo è un altro discorso. Si è implacabili con gli striscioni e i cori offensivi, si applicano punizioni che fin troppo spesso coinvolgono colpevoli e innocenti nello stesso provvedimento, ci si batte per impedire che gli arbitri siano considerati professionisti perché, si sostiene, trasformare in mestiere quello che dovrebbe essere solo un impegno volontario li sottrarrebbe a quel concetto etico di cui sopra (in realtà, se gli arbitri diventassero professionisti, si sottrarrebbero semplicemente a quel potere che oggi li controlla e potrebbero consentirsi giudizi più distaccati e seri, ma tant’è).
In politica invece dell’etica si parla sempre di meno e gli interessi personali di potere e ricchezza dei nostri governanti sono ormai usciti alla luce del sole a tal punto che nessuno si cura ormai più di nasconderli né tenta in modo concreto di illuderci che qualcuno, sul Colle, stia lavorando per noi. Ciononostante noi c’incaponiamo a pensare che certamente, fra tutti loro, ce ne sia qualcuno che fa del suo ruolo una missione o che almeno lo interpreta in modo corretto, pensando al bene del Paese non meno che al proprio. Ascoltiamo le sue parole e crediamo, vogliamo credere, a quello che dice e gli regaliamo con entusiasmo il nostro voto. Poi tutto resta come prima e noi incolpiamo i suoi avversari che gli impediscono di salvare la Nazione come farebbe certamente se ne avesse la possibilità.
E’ come quando vogliamo credere che la nostra squadra vince perché è la più forte, la più bella, la più onesta e, semmai, sono le altre che intrallazzano contro di lei per sottarle il primato.
E’ che l’uomo non può sopravvivere senza una fede. Fede in una persona, in un’idea, in una squadra di calcio che, nel nostro immaginario, incarna l’idea di giusto, di bello e di vero che ci affascina. E’ la forza delle religioni, nelle quali ci rifugiamo quando impattiamo rovinosamente contro la realtà che ci circonda. E’ la forza di un certo cinema hollywoodiano che ci raccontava che la gente, in fondo al cuore, è sempre buona e che, se si fa del bene, questo bene tornerà a noi. E’ la forza delle favole, in cui il cavaliere dall’animo puro abbatte tutti gli ostacoli. E’ la forza, ma anche la debolezza, dei nostri sogni, che ci costringono a credere in qualcosa o in qualcuno, perché altrimenti si muore.