LA MODICA DI ENZO BELLUARDO

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Sarà perché Modica è una città molto antica, fondata assai prima di Roma, ma è già da parecchio tempo che sembra accusare i sintomi di una tremenda malattia degenerativa legata proprio all’età: il morbo di Alzheimer. Questo infame malanno colpisce la memoria, cancella i ricordi, annulla le esperienze: il malato vive solo dell’adesso e qui; privato dell’angoscia che spesso la memoria di cose e di eventi spiacevoli porta, a suo modo è, incoscientemente, felice.
Modica dimentica in fretta e, a volte, sembra essere preda anche di un pizzico di demenza senile. Altrimenti, come potrebbe consentire che si continui a costruire nell’alveo dei torrenti, lasciati peraltro in condizioni d’inaudita trascuratezza? Alla recente rievocazione della tragica alluvione che ai primi del ‘900 causò morte e distruzione, avvenuta lo scorso settembre a S. Maria a cura di Carlo Cartier, oltre all’emozione suscitata nel pubblico presente, nessun segno di resipiscenza si è avuto a livello istituzionale. Le caditoie continuano ad essere ostruite, i torrenti pieni di sterpaglie e immondizie, le strade trasformate in fiumane di fango alle prime piogge: visto che grazie all’operato dell’Homo Sapiens Sapiens (!) l’equilibrio del pianeta sta andando in malora, ormai le precipitazioni atmosferiche somigliano sempre più a quelle tropicali, con trombe d’aria, vagonate d’acqua e grandine a volontà. Per effettuare almeno quelle manutenzioni minimali ma essenziali, dettate dal buonsenso del padre di famiglia, dobbiamo vedere di nuovo morte e desolazione? Le varie Madonne, lacrimanti e non, da tempo mandano messaggi circa “la morte per acqua” che colpirà l’umanità: ci si creda o no, potremmo almeno tentare di allontanare da noi il pericolo imminente. Perché se nel 1908 bastarono rami d’albero e pezzi di legno ad ostruire i ponti, oggi cosa potrebbe succedere con una slavina di carcasse d’auto, elettrodomestici, pallet, materassi e quant’altro intasati sotto corso Umberto?
Per carità, c’è la crisi economica e tutti ci stiamo, volenti o nolenti, ridimensionando. Se questa crisi riuscisse a modificare in meglio il nostro rapporto con i concetti di superfluo, di spreco, di equità, di uguaglianza, insomma se riuscisse a renderci più civili, che sia benedetta. Ma quando essa diventa lo scudo di protezione di cattive abitudini inveterate, non ci possiamo più stare. Lo dimostrano i tagli autocastranti per la Nazione nel campo della cultura, della scuola, della ricerca, dell’assistenza: un ora – fortunatamente – ex ministro delle finanze, bocconiano dall’erre moscia, arrivò ad affermare che con la cultura non si mangia! Ci penseranno i cinesi ad occuparsi della nostra unica ricchezza, i beni culturali… hanno cominciato con Pompei! Qui da noi ancora non dismettiamo i monumenti ma tagliamo comunque cose importanti: e qui torna il discorso della perdita di memoria. Il nome del piccolo Brafa non vi ricorda niente?
L’orrore di quella tragedia finì su tutti i media: Modica e Scicli furono esposte al pubblico ludibrio per la maniera vergognosa di come il problema del randagismo era stato non-gestito dalle amministrazioni comunali ed anzi scaricato sulle spalle di un uomo che si sapeva non essere affidabile.
Sull’eco della morte di Giuseppe e dell’aggressione avvenuta il giorno dopo sulla spiaggia di Sampieri ai danni della ragazza tedesca – in seguito morta suicida perché incapace di sopravvivere orrendamente sfigurata dai randagi – il Comune di Modica riuscì a costruire un canile comunale e ad istituire un servizio veterinario per la sterilizzazione e la microchippatura dei cani.
La struttura, pronta e completa, costata bei soldi dei contribuenti, non è però mai stata aperta! Solo l’abnegazione di uno sparuto gruppo di volontari è riuscita ad ottenere di poter usare una piccola parte del canile, dove poter ospitare solo una decina di cani adulti e una quindicina di cuccioli. Il tutto, pare, a loro spese!
Adesso il canile ufficialmente mai aperto è stato definitivamente chiuso, e la struttura sanitaria veterinaria di contrada Musebbi, dichiarata non idonea per motivi d’igiene, anch’essa chiusa. I soldi per mantenere efficienti questi servizi non ci sono, con buona pace per l’anagrafe canina! La città e le campagne brulicano di branchi di poveri animali famelici, e non basta la buona volontà di chi posiziona qua e là ciotole di mangime e d’acqua per evitare che questi cani possano diventare nuovamente pericolosi per gli umani e per il bestiame. Senza la microchippatura, obbligatoria per legge, gli abbandoni saranno sempre più facili perché non perseguibili, e la mancanza di un servizio pubblico per la sterilizzazione, gratuito o almeno a basso costo, vedrà aumentare il numero di randagi in maniera esponenziale.
Possibile che non si possa distaccare a questi servizi un po’ di personale comunale, che è così abbondante e spesso sottoccupato? Dovremo aspettare che qualche altra tragedia si compia?
Modica ha la memoria corta, e dimentica in fretta la vergogna di cui si è coperta per insipienza e stupidità: che peccato!
L.de Naro Papa
Antipasto: crostini con guacamole
Primo: riso basmati al limone e pistacchi
Secondo: cappello del prete bollito alle acciughe (fidatevi!) con patate novelle e carotine
Dessert: rotolo con ricotta dolce al limone
Preparare il brodo vegetale con sedano, carota, cipolla e un pezzo di zenzero fresco, servirà per il riso.
In una pentola capiente far rosolare, in 50 gr di burro chiarificato, 4 acciughe dissalate lavate con poco aceto e condite con olio evo e due spicchi d’ aglio. Quando le acciughe sono disfatte mettere in pentola la carne, un cappello del prete (1 kg e 1/2) farlo rosolare bene da tutti i lati, eliminare l’aglio e coprirlo a filo con acqua bollente, coprire e far cuocere almeno tre ore, a fuoco medio basso. Quasi a fine cottura, senza aggiungere altro liquido, mettere le patate a pezzettoni e le carote, coprire e far completare la cottura.
Per preparare il guacamole scegliere un avocado maturo, dopo aver eliminato la buccia, bagnare la polpa con il succo di un lime o di un limone e schiacciarla con una forchetta, condire con 4 o 5 pomodori datterino tagliati a cubetti minuscoli, un cipollotto tritato, un peperoncino fresco, sale e olio evo. Coprire la crema ottenuta con la pellicola e riporre in frigo se si prepara con molto anticipo, poi basta toglierla dal frigo dieci minuti prima di servirla. Tostare il pane e tenerlo in caldo.
Preparare l’impasto per il rotolo con 4 uova, 60 gr di farina, 20 gr di fecola,1 cucchiaino di lievito, un pizzico di sale, un cucchiaio di scorza di limone. Montare gli albumi con due cucchiai di zucchero, con il rimanente montare i tuorli, aggiungere il limone, le polveri e delicatamente gli albumi. Stendere il composto sulla placca ricoperta di carta-forno e infornare a 180° per 12/15 minuti. Una volta cotto, rivoltare il dolce sopra un panno umido, staccare la carta-forno, arrotolare nel panno e fare intiepidire. Lavorare circa mezzo chilo di ricotta con lo zucchero per ottenere un crema liscia, aggiungere la scorza di un limone verde e i semi di un baccello di vaniglia. Spalmare la crema sul dolce ormai tiepido, arrotolarlo di nuovo e metterlo in frigo. Servire tagliato a fette e spolverizzato di zucchero a velo.
In un tegame fare appassire due scalogni tritati, facendo attenzione a non bruciarli, versare il riso, precedentemente sciacquato, farlo tostare e aggiungere il brodo bollente (per una tazza di riso due tazze di liquido), coprire e far cuocere a fiamma molto bassa senza mescolare per 10 minuti. Controllare la cottura del riso, unire altro brodo, se occorre, condire con le zeste di limone, il succo e mantecare con olio evo, completare con i pistacchi tritati e abbondante pepe appena macinato.
Far restringere il fondo di cottura della carne, servirla tagliata a fette, irrorata dalla salsa e contornata da patate e carote condite con un filo d’olio.
Come aperitivo e per il primo: La Fuga di Contessa Entellina o un Verdicchio dei Castelli di Jesi
Per il secondo: Barbera d’Alba o Lambrusco
Per il dessert: Passito di Pantelleria.
L’azienda familiare dell’imprenditore edile Salvatore Cappello ha sede nella Vanella 117, Contrada Aguglie, e si occupa di trasporti, scavi e frantumazione di pietre.
A prima vista sembra un frantoio come tanti altri, una montagna di pietre da frantumare con ai piedi i tantissimi suoi derivati da rivendere alle case edilizie, ai semplici operai ed anche alle persone che si dedicano ai loro giardini o al restauro della loro casa autonomamente.
Un frantoio, quindi, uguale a tanti altri ma con qualcosa di diverso (scopriremo di seguito cosa).
Visitando l’azienda, insieme al signor Cappello che orgogliosamente mi parla del suo frantoio, e osservando la montagna di pietre e tutto ciò che la circonda, mi rendo subito conto di quanto duro lavoro ci sia dentro, prima di far nascere, da una pietra, un sacco di cemento.
Soprattutto mi rendo conto che, se una persona dà la vita e lavora tra le pietre da tanti anni, deve per forza amare il suo lavoro.
Fra tutta quella polvere, infatti, l’amore si tocca con mano e si sente nell’aria che si respira.
Io personalmente mi sono chiesta come fosse possibile guardare quelle grandi pietre e scoprire che sono vive.
A spiegarmelo sono stati gli operai del frantoio, mentre a turno si davano il cambio sul posto di lavoro.
L’azienda esiste da quarant’anni, mi hanno spiegato, e se prima era un deposito di pietre, sia proprie che di terzi, da vent’anni si occupa anche del trasporto, della frantumazione e della modellazione delle pietre.
Tutt’attorno alla montagna è pieno di macchinari, tre i camion, due gli escavatori, uno con martellone pneumatico e benna caricatrice e uno con carrellone, due le pale meccaniche con le quali trasportano, estraggono e caricano la pietra dai propri terreni, dalle cave autorizzate, dai terreni agrari e sempre con l’autorizzazione del corpo forestale, adoperandosi inoltre così automaticamente alla sistemazione dei terreni.
Durante la visita al frantoio, mi spiegano come avviene il processo della frantumazione delle pietre e mi meraviglio della loro semplicità nello spiegare a me, donna, un lavoro che sembrerebbe alquanto maschile (ho poi capito perché).
Le pietre, dunque, trasportate sul posto prima dai camion, poi tramite le pale meccaniche che a loro volta caricano prima le pietre e poi le scaricano nella tremogena (una grande vasca) che le passa al vaglio tramite un nastro trasportatore, manovrato manualmente per mezzo di una leva posta all’interno della cabina di pilotaggio adiacente alla tremogena e collegata ad un motore idraulico, e (la tremogena) separa gli inerti (il materiale) passando quelli idonei nel mulino primario che le modella.
Qui, gli inerti vengono selezionati in categorie: breccia di diverse qualità e misure, pietrisco, breccia levigata per i giardini, ciottolame levigato, sabbia per gli intonaci.
La sabbia per i calcestruzzi viene separata anch’essa e versata tramite un nastro trasportatore dentro a un vermiglione (contenitore) pieno d’acqua e qui lavata, divenendo così “sabbia lavata”.
Tutto ciò che rimane fuori vaglio, viene definito come un misto granulometrico ed è utilizzato per il manto stradale, precedendo l’asfalto.
Mediante un silos inoltre, nell’azienda si confezionano sacchi di tutto il materiale prodotto, facili per la rivendita a privati o ai magazzini di materiale edile.
L’azienda dispone inoltre di u’area d’intrattenimento per i clienti, dove, in caso di maltempo o di bisogno, si può sostare, ricevendo cortesia e, perché no?, anche un buon caffè; un ufficio per la contabilità e per il diretto contatto coi clienti; due bagni con relative docce, uno maschile e uno femminile.
Gli operai:
Enza Cappello, 35 anni, diplomata in ragioneria, sposata felicemente e mamma di un ragazzo da 9 anni, lavora col padre da circa 4 anni e si occupa maggiormente della manutenzione della cabina di pilotaggio e delle consegne ai clienti, trasportando il materiale richiesto col camion alle case edilizie;
Letizia Cappello, 28 anni, sposata con Simone Barbato, che lavora anche lui nell’azienda da 8 anni e che si occupa principalmente degli scavi e dei trasporti; è diplomata anche lei in ragioneria, lavora col padre da circa 10 anni, si occupa della contabilità dell’azienda e della pala del carico e scarico del materiale, principalmente per l’inserimento dello stesso nella tremogena.
C’è poi Maria, di anni 38, diplomata anche lei come le sorelle, sposata e mamma felice di un bimbo di 5 anni, disoccupata non per scelta, ma che, pur di stare un po’ insieme alla famiglia e un po’ per hobby, si diletta ad aiutare le sorelle e il padre ed è un tuttofare tra pietre e ufficio.
Ecco spiegato allora perché, fra tutta quella polvere di pietre frantumate l’amore si tocca con mano e si sente nell’aria che si respira.
Frantumare pietre quindi, senza dubbio, è un lavoro molto facoltoso, faticoso e polveroso, ma molto utile per le nostre case, i nostri giardini, le nostre strade.
Credo sia doveroso apprezzare le persone che fanno questo lavoro e delle quali spesso invece ci dimentichiamo quanto grande e importante sia la loro operosità, senza pietre, infatti, non potremmo costruire neppure la più piccola delle case per le nostre famiglie.
Un po’ presuntuosamente, penso proprio che la diversità del frantoio di pietre del signor Salvatore Cappello e della sua famiglia, stia proprio nell’amore, nell’instancabilità, nella determinazione e nella fiducia che un padre ha saputo donare alle proprie figlie e soprattutto, nella fierezza di queste tre piccole donne che, col sorriso, la gentilezza e l’amore per il proprio lavoro, riescono a far parlare anche le pietre.
Sofia Ruta
Non ci sbagliavamo quando, qualche settimana, fa ribadivamo ad alta voce che la strada della ripresa è ancora lontana, e tutto questo nonostante le fievoli rassicurazione del Governo Letta. Quando un Presidente del Consiglio afferma in questi giorni che avere oggi il 40% di disoccupazione giovanile significa perdere una generazione, quando si ribadisce che questa crisi economica rischia di diventare una crisi sociale, quando si dichiara che per tutto il 2014 e fino al 2016 la pressione fiscale continuerà ad essere del 44% e che, sempre per il 2014, non si vedrà né crescita e né sviluppo, quando un consumo di pane è sceso ai minimi storici da 150 anni, quando per gli alimentari si compra solo il necessario e si adotta una serie di strategie alternative (creare un piccolo roto o fare pare il pane in casa), tutto questo è la dimostrazione che siamo arrivati proprio allo stremo delle forze di sopportazione e di sopravvivenza. E cosa fa il Governo per recuperare denaro? Bussa alle tasche del cittadino e delle imprese con il ” super-acconto” di novembre 2013. Infatti, entro il prossimo 2 dicembre (essendo il 30 sabato) l’acconto irpef passa dal 99% al 100 %, a decorrere dall’anno d’imposta 2013, l’acconto dell’ires passa dal 100% al 101%, ma, a differenza dell’irpef, solo per quest’anno, e l’aumento dell’acconto dell’irap segue le regole previste per l’imposta sui redditi. Questa disposizione prevede una previsione di maggiori entrate di 655,6 milioni di euro. Dal punto di vista della platea, ad essere “tartassati” sono ovviamente i dipendenti e i pensionati con altri redditi, mentre, guardando ai bilanci, saranno le imprese, gli imprenditori individuali ed i professionisti a pagare il conto più salato. Ma, tenuto conto che l’economia non gira, che ci sono pochi soldi in circolazione, che nessuna impresa produce in quanto nessuna persona acquista, allora ci si chiede come si farà a pagare questo conto sempre più salato.
Per un artista esporre vuol dire mostrare, vuol dire incontrare, vuol dire dialogare, vuol dire uscire dal monologo interiore per avviare uno scambio con la comunità. Andrea Emilio lo fa periodicamente. Lo abbiamo incontrato a Pozzallo dove ha esposto opere realizzate a mosaico, a Modica presso Palazzo Grimaldi con disegni, e, ai primi di questo novembre, nella Chiesa di S. Anna presso il Liceo Convitto con stampe xilografiche.
Ogni volta è una rivelazione delle sue competenze e delle sue abilità tecniche ed artistiche, non solo perché varia lo spettro delle proposte sul piano tecnico e grafico, fa anche questo, ma perché servendosi di tecniche antiche di secoli le utilizza con una declinazione che sa di inedito, di assolutamente attuale, come colui che avendo interiorizzato la ricchezza e la plasticità della lingua di Dante riesce a catturare la sensibilità e l’attenzione di un quindicenne d’oggi che solitamente frequenta solo il web.
Andrea ha questo dono, sa unire l’ieri all’oggi facendo sintesi del bagaglio culturale che permea la storia sedimentata nei secoli e il tratto dell’espressione odierna. Andrea è un artista anche in questo, sia per quello che di inedito propone (nei suoi lavori infatti si accoppia la pazienza della manualità artigiana del maestro e un tratto realizzativo di stile contemporaneo), sia per il linguaggio originale che attualizza il manufatto. E’ sorprendente come con maestria attui una sorta di rivisitazione che non altera l’antico ma realizza il moderno, sappia costruire ponti, sappia collegare linguaggi senza forzare su niente, senza cadere nella confusione, senza mancare di rispetto e rigore al buongusto.
A mio parere, Andrea ha saputo metabolizzare un ascolto poetico della conoscenza che ha avuto modo d’incontrare e conoscere durante la sua formazione e dall’ambiente di vita che ha frequentato, ascolto poetico che è capace di restituire con la leggerezza della sapienza tecnico-artigianale impeccabile acquisita nel percorso formativo (Accademia di Belle Arti di Ravenna, corso di incisione ad Urbino).
Questo giovane ha maturato un bagaglio notevole, tanto da poter osare di innovare. Il suo saper fare può essere paragonato al musicista che acquisita una mirabile formazione accademica classica e dopo la restituisce all’ascoltatore nel genere jazz, facendolo strabiliare col “suo” Bach, riuscendo cioè a farlo impazzire per l’antico espresso in maniera più libera, senza i lacci ingessanti dell’accademismo statico, insomma aggiungendo libertà senza togliere sostanza.
E’ questo quello che abbiamo trovato nell’ultima mostra, “Volti della Poesia”, nella serie di ritratti che ci siamo trovati allineati sui due lati della Chiesa di S. Anna poggiati su cavalletti, stampe xilografiche in formato 50×70 (acrilico su carta).
Ritratti di volti espressi con un tratto grafico originale, moderno, innovativo. Un tratto grafico capace di superare l’immobilità fisiognomica del ritratto classico, capace di rendere, attraverso un gioco di luci ed ombre emergenti dal solco prima tracciato sul legno, poi coperto di vernice e riportato sulla carta, la peculiarità di quell’individuo.
Con questo tratto originale emerge da ciascuno una fisionomia autentica e mobile, una sorta di peculiarità dell’anima sgorgante dal profondo, espressa con l’acutezza e la leggerezza della disinvoltura del linguaggio satiresco. Una sorta di messaggio estratto dall’accentuazione della sostanza reale che mira all’occhio piuttosto che all’orecchio come fa la parola della satira, ma come quella penetra sottile.
Il giovane Andrea Emilio maneggiando una tecnica risalente al XIV secolo, a cui imprime il suo tratto personalissimo, riesce ad ottenere una resa fumettistica elegante e leggera, raffinata e sottile che di ogni volto esalta, sottolineandolo con il segno della paradossalità, l’essenza della personalità, il tratto dell’unicità individuale fino a farlo emergere in una sorta di tono sonoro da baritono sovrastante quello del basso dei classici ritratti. E’ capace insomma di un artificio sottile che non si vede agire ma rende effetto: luci ed ombre, segno e contorno. Un concorrere alchemicamente dosato capace di rendere espressioni di autenticità caratteriali del soggetto che vanno ben oltre la fissità di una foto o di un ritratto di tipo classico.
Il visitatore della mostra si è imbattuto in una vivezza ed acutezza d’espressione dei personaggi davvero sorprendente, tutta giocata su una complicità tra gli occhi e il contorno del viso, dove i primi travasano ed il secondo trattiene. In questo modo riesce a fare danzare la diffidenza dello sguardo un po’ torvo di chi ha osato affacciarsi sugli abissi della psiche di un Quasimodo che, se pur familiarissimo, ci viene reso inedito. Altrettanto avviene per gli altri noti volti di poeti e scrittori modicani come Salvatore Puma dai cui segni espressivi emerge tutta la tenacia dell’autodidatta, Carmelo Ottaviano con la sua ermeticità, Giovanni Modica Scala con la sua curiosità ambiziosa, Nannino Ragusa con la sua intelligenza investigativa, Enzo Sipione con la pacatezza dell’osservatore profondo, Elio Galfo con la gentilezza aristocratica, Carmelo Assenza con la morbidezza dell’affabilità amante, Marcello Perracchio con la tensione della maschera che rende tanti volti, e Raffaele Poidomani con la spietatezza sentenziante verso l’ipocrisia dei meschini d’animo.
Una galleria di maschere, impercettibilmente alterate per rendere l’autenticità dell’anima che coprono, resa vivida e palpitante, capace di arrivare, fino a toccarla, all’intimità sensibile del visitatore con l’incisività di un graffio e la leggerezza di un soffio, rendendo visibile, come sa fare l’arte, ciò che sta al tiro dello sguardo ma che normalmente risulterebbe invisibile.
Carmela Giannì
In Italia, si sa, lo sport più amato e seguito è il calcio. Ovvio dunque che questo porti inevitabilmente grossi vantaggi a chi lo gestisce. Si tratta senza dubbio di vantaggi economici, ma, ancor più, di visibilità e potere. Come stupirsi dunque che il tifo, da sempre, sia stato abilmente convogliato, attraverso gli organi d’informazione, verso quelle squadre legate, per mezzo dei loro proprietari, al potere, un potere che aspirava e aspira a crescere sempre di più per fagocitare tutto? E’ ovvio che i media non bastano a rendere una squadra forte, così si è proceduto a gestire quegli “aiutini” indispensabili a cavar fuori dall’impiccio provocato dall’esplosione sportiva imprevista di una formazione che del centro destinato al potere non faceva parte. Qualche volta è stato dimostrato e provato, qualche altra c’è stato ma nessuno si è preso la briga di provarlo. Parlando di “aiutini” verrebbe da pensare al rigore eclatante sfacciatamente negato o al gol in fuorigioco altrettanto sfacciatamente convalidato, ma in realtà, come spiegò un arbitro a un amico, i più intenzionali sono quelli che si attuano attraverso la gestione delle ammonizioni e la regia stessa della gara che mette i calciatori nelle condizioni di sbagliare. Non staremo qui a spiegare le strategie, perché non è specificatamente di questo che intendiamo occuparci oggi. Piuttosto vogliamo osservare come nel calcio si metta avanti in ogni situazione il concetto di “etica dello sport”, tanto è vero che, solo per fare un esempio, il calciatore che simula di aver ricevuto un fallo viene ammonito per questo, perché si tratta di una cosa antisportiva, ed è giustissimo; magari poi quel calciatore il fallo l’ha ricevuto davvero ma quell’ammonizione serve a fargli saltare la partita seguente e mettere la sua squadra in condizione d’inferiorità rispetto alla prossima avversaria, ma questo è un altro discorso. Si è implacabili con gli striscioni e i cori offensivi, si applicano punizioni che fin troppo spesso coinvolgono colpevoli e innocenti nello stesso provvedimento, ci si batte per impedire che gli arbitri siano considerati professionisti perché, si sostiene, trasformare in mestiere quello che dovrebbe essere solo un impegno volontario li sottrarrebbe a quel concetto etico di cui sopra (in realtà, se gli arbitri diventassero professionisti, si sottrarrebbero semplicemente a quel potere che oggi li controlla e potrebbero consentirsi giudizi più distaccati e seri, ma tant’è).
In politica invece dell’etica si parla sempre di meno e gli interessi personali di potere e ricchezza dei nostri governanti sono ormai usciti alla luce del sole a tal punto che nessuno si cura ormai più di nasconderli né tenta in modo concreto di illuderci che qualcuno, sul Colle, stia lavorando per noi. Ciononostante noi c’incaponiamo a pensare che certamente, fra tutti loro, ce ne sia qualcuno che fa del suo ruolo una missione o che almeno lo interpreta in modo corretto, pensando al bene del Paese non meno che al proprio. Ascoltiamo le sue parole e crediamo, vogliamo credere, a quello che dice e gli regaliamo con entusiasmo il nostro voto. Poi tutto resta come prima e noi incolpiamo i suoi avversari che gli impediscono di salvare la Nazione come farebbe certamente se ne avesse la possibilità.
E’ come quando vogliamo credere che la nostra squadra vince perché è la più forte, la più bella, la più onesta e, semmai, sono le altre che intrallazzano contro di lei per sottarle il primato.
E’ che l’uomo non può sopravvivere senza una fede. Fede in una persona, in un’idea, in una squadra di calcio che, nel nostro immaginario, incarna l’idea di giusto, di bello e di vero che ci affascina. E’ la forza delle religioni, nelle quali ci rifugiamo quando impattiamo rovinosamente contro la realtà che ci circonda. E’ la forza di un certo cinema hollywoodiano che ci raccontava che la gente, in fondo al cuore, è sempre buona e che, se si fa del bene, questo bene tornerà a noi. E’ la forza delle favole, in cui il cavaliere dall’animo puro abbatte tutti gli ostacoli. E’ la forza, ma anche la debolezza, dei nostri sogni, che ci costringono a credere in qualcosa o in qualcuno, perché altrimenti si muore.
Uno sguardo dal Pizzo
400 gr di lenticchie cotte, 100 gr di noci tritate, 2 cipollotti, 50 gr di pangrattato, 1 uovo, 1 mozzarella, q.b. di salsa di pomodoro, q.b. di sale e pepe
Frullare tutti gli ingredienti, tranne la salsa e la mozzarella, versare il composto su un foglio di cartaforno spennellata con olio d’oliva, formare il polpettone e avvolgerlo nella carta come una caramella, infornare a 180/200° per 30 minuti. Tagliarlo a fette dopo averlo fatto intiepidire e sistemarlo in una pirofila con il pomodoro e la mozzarella, Rimettere in forno giusto il tempo di far sciogliere la mozzarella. Servire caldo.