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RICORDIAMO FEDERICA POIDOMANI DOLCETTI

Federica Poidomani DolcettiIl 15 giugno ricorreva il quindicesimo anniversario della morte di Federica Poidomani Dolcetti.

Veneziana, si era trasferita a Modica quando la sua vita si era legata a quella dello scrittore modicano Raffaele Poidomani e qui era rimasta anche dopo la sua morte, diventando un personaggio significativo nella nostra città.

No, non era una persona qualunque e l’essere una grande pianista non rappresentava che uno dei tanti aspetti della sua eccezionalità. Irruenta, generosa, leale, aveva abbandonato una carriera, che già la vedeva affermata come pianista sui primi palcoscenici d’Italia ancora giovanissima, per seguire Raffaele, il suo grande amore, in una cittadina che l’avrebbe esclusa dalla ribalta, ma che importava? Lei la vita non la pianificava, la viveva.

Tre figli, spesso gravi difficoltà economiche, l’incomprensione dei concittadini nei confronti di quei due geniacci che volavano troppo alto per potersi inserire in una comunità normale, sapeva godersi fino in fondo quella strana vita che si era scelta perché, come il suo Raffaele, aveva una ricchezza che pochi posseggono: l’ironia. E con l’ironia la vita la si può gustare appieno.

Dopo la morte del marito, per mantenere la famiglia si era messa a insegnare pianoforte, dedicandosi ai suoi allievi con la solita passione che metteva in ogni sua azione, in ogni sua scelta. Cercava di trasmettere loro tutta la sua arte, ma certo non tutti erano in grado di recepirla come lei avrebbe voluto e allora si disperava, si arrabbiava, perché non riusciva a capire come qualcuno che aveva in sé delle potenzialità pianistiche di qualità potesse trascurarle per vivere la vita spensierata di qualsiasi adolescente, perché la musica, per lei, era una padrona che richiedeva dedizione assoluta, non consentiva distrazioni. Eppure anche lei, un giorno, l’aveva tradita abbandonandola per amore di un uomo.

Un giorno, su un periodico locale, lesse un articolo che parlava di quei musicisti che si fossilizzano nell’insegnamento del loro strumento nell’intento di trasmettere ad altri le qualità proprie (qualità che difficilmente potranno essere trasmesse per intero) rinunciando a esprimerle davanti al pubblico delle sale da concerto e li esortava a volare più alto, a essere, in un certo senso, più egoisti. Era un articolo che si riferiva a un certo tipo di scelte, senza parlare di qualcuno in particolare, ma lei l’aveva sentito come rivolto a sé, l’aveva ritagliato, incorniciato e appeso davanti al suo pianoforte. E aveva deciso di tornare al concertismo. Non era certo più una ragazzina, erano passati tanti anni e i contatti di un tempo erano andati perduti, eppure in breve tempo era riuscita nuovamente a esibirsi su palcoscenici importanti, alla Fenice di Venezia, nella casa di Chopin in Polonia, in Francia.

Già, perché dedicarsi alla musica per lei non era abbastanza, era un amore troppo astratto perché la potesse completare: lei doveva dedicarsi a qualcuno, a una figura che incarnasse in un’immagine quella musica che lei amava. Una volta Raffaele le aveva chiesto perché non suonasse Chopin e lei aveva risposto che proprio non le piaceva, non l’avrebbe suonato mai! Vivendo però la malattia e poi la morte del marito, comprese che proprio a Chopin poteva rivolgersi un’anima dolente per sfogare la propria sofferenza e in qualche modo trarne conforto. Ne divenne così un’interprete appassionata, una studiosa, una messaggera. Consultando le sue carte, aveva ritrovato la prima versione del Notturno in Mi bemolle maggiore op.9 n.2, una versione che non era stata più eseguita perché troppo difficile, l’aveva pubblicata per l’Associazione Italo-Polacca “Karol Szymanowski” e l’aveva eseguita in concerto. Ormai per lei esisteva solo Chopin, che eseguiva con passione e irruenza, avendogli strappato l’etichetta di “musicista da salotto” per evidenziarne la forza e l’intensità che emergeva chiaramente nelle Polacche, quella forza che il fisico del compositore nascondeva ma che traboccava dalla sua anima.

Sono passati ormai quindici anni da quando Federica ci ha lasciato. Se adesso, dopo lungo oblio, la Città si è decisa a ricordare lo scrittore Raffaele Poidomani, modicano di nascita e di generazioni, ci chiediamo se un giorno vorrà avere memoria della pianista che gli è vissuta accanto e che modicana è diventata per scelta. Modica è spesso ingrata coi suoi figli, possiamo immaginare quanto sappia esserlo con quelli adottivi. Noi abbiamo ancora nelle orecchie e nell’anima la sua musica. Noi no, noi non potremmo mai dimenticarla!

L. Montù




IL LIBERO CONSORZIO DEL VAL DI NOTO. LE RAGIONI DEL CAMBIAMENTO

Sono diverse e numerose le ragioni che dovrebbero spingere alla formazione di un Libero Consorzio del Val di Noto con capofila Modica. In primo luogo i flussi dell’economia reale, delle imprese e dei servizi, da almeno un ventennio si sono ricalibrati verso il versante sud-orientale attraversato ora dalla nuova autostrada Siracusa-Gela. Il settore del Turismo balneare (da Donnalucata a Marzamemi), i trasporti marittimi e l’Area industriale (porto di Pozzallo), l’agricoltura intensiva e l’industria agroalimentare (dalla zootecnia dell’altopiano modicano all’ortofrutta di Scicli, Ispica e Rosolini, ai vigneti di Noto, al pomodorino di Pachino), l’industria della pesca (Portopalo), i recenti insediamenti commerciali, si sono da tempo riorientati spazialmente come nuovo Comprensorio o “sistema locale” a cavallo delle ex-Province di Ragusa e Siracusa, con filiere produttive ormai sganciate dai rispettivi capoluoghi. Si aggiunga che da tempo gli Ospedali di Modica e Scicli forniscono assistenza sanitaria ad un’utenza vasta del comprensorio netino, come gli Istituti scolastici secondari di Modica ospitano a centinaia gli studenti dell’area sud del siracusano. Questa realtà economica e sociale ha acquisito una propria e distinta autonomia, che coincide largamente con i confini della Diocesi di Noto e che ora andrebbe sancita anche sotto il profilo istituzionale.

In secondo luogo i due Comprensori, netino e modicano, da decenni esprimono disagio per le politiche accentratrici dei rispettivi Capoluoghi. Siracusa ha concentrato attenzione prevalentemente nell’ area Nord della Provincia, dirottando risorse e investimenti verso il polo petrolchimico di Augusta/Priolo/Melilli, a tutto svantaggio dell’area sud più caratterizzata dalle attività agricole e dalla valorizzazione turistica dei Beni Culturali e paesaggistici. Anche Ragusa non è riuscita a svolgere una cabina di regia dello sviluppo locale, accumulando ritardi gravissimi nella realizzazione delle infrastrutture (autostrade, aeroporto, porti) e soprattutto mettendo in campo un egoismo territoriale che ha impoverito le altre città iblee (Sanità, Uffici, viabilità, Tribunale, Scuole e Università, ecc.). Nessuno può accusare oggi di campanilismo il costituendo Consorzio del Val di Noto. Semmai i vecchi Capoluoghi dovrebbero fare autocritica per l’eccessivo e dannoso campanilismo delle rispettive politiche.

Infine occorre sottolineare come il nuovo Libero Consorzio intende essere un’ istituzione diversa rispetto alle ex Province. Si tratta, infatti, di eliminare le tradizionali impalcature burocratiche e i desueti apparati di potere legati alle ex Amministrazioni Provinciali, costosi e parassitari, per sostituirli con strutture “leggere” di coordinamento politico e territoriale in ordine a infrastrutture, servizi, turismo e Beni culturali. Non a caso, le città che hanno intenzione di costituire il Libero Consorzio del Val di Noto rifiutano la logica dell’allargamento delle Province di Siracusa e Ragusa come soluzione “gattopardesca” di riproposizione degli stessi sistemi clientelari, ed optano invece per un modello innovativo di organizzazione amministrativa. Qualcuno dice che si tratterebbe di un Consorzio-bicchiere, ma questo è semmai il rischio che corre Ragusa se fosse abbandonata dal comprensorio modicano. E in ogni caso non servono Consorzi-carrozzoni di 25/30 comuni, ingestibili da governare, ma “comunità di progetto” coese e determinate. Non si tratta dunque di essere “contro” Ragusa o Siracusa, che la legge 8/2014 ha già garantito come capofila di Consorzi. Si tratta piuttosto di fare “altro” e meglio nell’interesse dei cittadini. Nel segno dell’Unesco, dell’accoglienza turistica, delle eccellenze agroalimentari del Sud-Est.

Uccio Barone




LA MODICA DI ENZO BELLUARDO




SEGNARE IL TERRITORIO

E’ cosa nota che, nel mondo animale, ogni specie ha un suo modo particolare per marcare il proprio territorio: quando lo portiamo a spasso, il nostro Fido alza la zampa innumerevoli volte, non certo per difficoltà vescicali ma per lasciare il segno del suo passaggio. Anche la specie umana ha quest’abitudine, solo che invece di lasciare tracce odorose e volatili, lascia tracce capaci di durare millenni: la Muraglia Cinese, le Piramidi d’Egitto, i disegni di Nazca, sono lì a testimoniare la nostra ingombrante presenza sul pianeta. In scala molto ridotta, da sempre i graffiti sui monumenti e, recentemente, le tag a vernice spray su ogni superficie disponibile non fanno che affermare la necessità di poter dire di essere esistiti.

L’antropizzazione dell’ambiente ha comportato modifiche incommensurabili ai territori, nel bene e nel male. L’uomo ha saputo creare, forzando la Natura, cose meravigliose e geniali: Venezia, i Paesi Bassi, le risaie terrazzate in Cina. Ma, specie nei tempi moderni, vuoi per la fretta, vuoi per il dio Denaro che tutto asservisce, i segni che l’umanità sta lasciando parleranno ai posteri della nostra inciviltà, ignorante e spocchiosa, e del profondo disprezzo per i tesori naturali che sta sperperando: gli archeologi di domani cosa penseranno di noi per quello che troveranno scavando nelle discariche della monnezza? Nell’immaginario collettivo, Parigi viene identificata più per l’orrenda Tour Eiffel e per l’abominevole SacreCoeur che non per Notre Dame! Succede anche per Modica: le immagini più veicolate sono quelle del viadotto Guerrieri e della Torre dell’Orologio.

La melagrana spaccata di bufaliniana memoria, stupefacente struttura rupestre antropizzata, che era stata capace di risorgere in artistiche forme dopo il disastroso terremoto del 1693, è stata oscenamente violentata nel secondo dopoguerra proprio nel cuore dai palazzoni fuori scala di Corso Umberto. L’estensione urbana sull’altipiano, frutto più della speculazione e dell’abusivismo che non di scienza urbanistica, ha ucciso il profilo – lo sky line – delle cave. Il Monserrato, che opportunamente arricchito di piante autoctone, potrebbe diventare una quinta verde di grande bellezza da cui godere del panorama della città, continua ad essere bruttato da una quantità di tralicci ed antenne, in gran parte obsolete, che andrebbero rimosse senza indugio. C’è chi si lamenta della scritta in stile ironicamente hollywoodiano: ma NO MUOS o WELCOME TO PARADISE veicolano almeno messaggi di cultura, e sono rapidamente reversibili.

Da qualche giorno un gigantesco Redentore, evidente citazione di quello del Corcovado a Rio de Janeiro, sembra pronto a spiccare il volo dalla Giacanta. Che dire? Il materiale povero di cui è costituito – polistirolo espanso – e la struttura portante di acciaio a vista ci rassicurano della temporaneità dell’installazione, che sembrerebbe voler avere uno scopo scaramantico in vista dei Mondiali di calcio, e, forse, segnalano un poco di saudade da parte di Marcelo Cordeiro per la sua patria così lontana. L’artista brasiliano, che ha scelto di vivere ed operare nella nostra città con iniziative interessanti, capaci di scuotere Modica dal sonno della ragione che genera mostri – come recita un cartiglio nella celebre veduta di Modica dal Monserrato di Pietro Ricca – stavolta si è allargato un po’ troppo. Non sappiamo se questa installazione sia stata in qualche modo autorizzata o sia frutto della sola iniziativa privata; non sappiamo se veramente essa insista su un’area archeologica ancora in parte inesplorata, di certo c’è che ha sollevato un vespaio notevole di critiche anche velenose e di adesioni fideistiche fuor di luogo. Se questa iniziativa resta nei margini dell’installazione artistica temporanea, anche se appare assolutamente estranea al nostro paesaggio e alla nostra cultura, passi. Ma se il Cristo di polistirolo dovesse, come molte anime pie anelerebbero, fare da battistrada a gigantesche Madonne marmoree, allora non ci possiamo stare. Modica è già stracolma di raffigurazioni cosiddette sacre di bassissimo profilo artistico e di alto contenuto idolatra: ma cosa pensate che ne direbbe papa Francesco?

Non ci resta che sperare, data la leggerezza del materiale e la postura delle braccia, che in una notte senza luna il Redentore si libri dalla rupe come un silenzioso deltaplano, e sparisca nel buio come tempo fa fece la Cometa arrotolata.

Lavinia de Naro Papa




LE RICETTE DELLA STREGA (a cura di Adele Susino)

Pollo al latte di cocco e ananas

Ingredienti:

1 kg di fusi e sopra cosce di pollo, 1 ananas non troppo maturo, 4 cipollotti, 4 porri, 3 carote, 3 peperoni gialli, 1 pezzetto di zenzero fresco, 1 cucchiaio raso di curry, 1 lattina di latte di cocco, 1/2 tazza di anacardi tostati, q.b. di salsa di soia, olio di sesamo, tabasco verde e yogurt greco, 1 lime

Preparazione:

Pulire e tagliare l’ananas a pezzetti, avendo cura di raccogliere il succo in una ciotola. Mescolare il succo di ananas al succo di lime e allo yogurt e mettervi a marinare il pollo per circa 1 ora. Affettare porri e cipollotti, carote e peperoni con un taglio obliquo. Nel wook ben caldo, con 1/2 cucchiaio di olio, far soffriggere il pollo scolato dalla marinatura, aggiungere lo zenzero a fettine e sfumare con la salsa di soia. Mantenendo il fuoco vivace far rosolare bene la carne e toglierla dal vook. Nel fondo di cottura saltare velocemente le verdure e l’ananas a pezzetti, aggiungere gli anacardi, le spezie, il liquido della marinatura e il latte di cocco, far amalgamare, rimettere il pollo e completare la cottura a fuoco moderato. Servire caldo con riso pilaf alla curcuma.




UNA LOGICA PERVERSA

La piccola Rita Lorefice è morta prima ancora di raggiungere i tre anni. E’ morta perché la legge italiana (ma la legge altro non è che la volontà degli uomini che la compilano e poi la applicano) ha deciso che la cura Vanoni, quella cioè basata sulle cellule staminali, non doveva più essere somministrata. Le legge in questo caso ha parlato per bocca del Comitato scientifico che ha dichiarato la cura non originale e incoerente col presupposto stesso del metodo. Stranamente però alcuni pazienti trattati con quel metodo, anche se non guarivano, stavano meglio, continuavano a vivere. Com’era accaduto alla piccola Rita, che, sottoposta alla cura Vanoni, aveva mostrato dei segnali di miglioramento, come avemmo modo di raccontare ai nostri lettori qualche mese fa.

Proprio non riusciamo a capire. Cosa spinge degli scienziati a rifiutare la somministrazione di una cura col semplice pretesto che non guarisce anche se da sollievo ai pazienti? Per chi sta male, per la sua famiglia, riuscire a star meglio, guadagnare anche solo qualche giorno di vita, può essere già abbastanza se alla guarigione arrivare non si può. O non si può ancora. Perché a volte guadagnare del tempo può voler dire resistere fino al giorno in cui la cura realmente efficace viene trovata.

Pochi giorni prima il Tribunale di Ragusa aveva disposto che alla piccola dovesse essere somministrata la cura Vanoni. I medici di Brescia, incaricati del trattamento, si erano rifiutati, adducendo come motivazione l’obiezione di coscienza.

Se adesso i nostri lettori si aspettano che spieghiamo loro quale obiezione la coscienza di questi medici suggeriva loro, resteranno delusi, perché non siamo assolutamente in grado di farlo. Ci rendiamo perfettamente conto della necessità, anzi dell’obbligo, da parte della comunità scientifica di controllare con scrupolo e pignoleria le nuove cure e di non consentirne la somministrazione con leggerezza, ma quando un paziente con quella cura ha già provato un sollievo, seppur minimo, quando l’alternativa non può essere altro che la morte, quale logica perversa può imporre di negare quel sollievo a chi altra speranza non ha? Di questo infatti il Tribunale di Ragusa è stato ben consapevole, al punto che aveva intelligentemente emesso un’ordinanza che consentisse la somministrazione della cura a Rita. Ai medici degli “Spedali civili” di Brescia questo non è bastato. Può la coscienza di un essere umano suggerire di lasciar morire una bambina di nemmeno tre anni? No, non può! Eppure l’ha fatto. Ed è per questo che noi, tutti noi, ci sentiamo colpevoli. Colpevoli per far parte di un mondo dove una coscienza distorta arriva a rifiutare una cura, dove gli scrupoli di un medico contano più della vita d’un bambino, dove le norme, e chi le pone in essere, diventano sempre più illogiche e incomprensibili.

Luisa Montù




NASCERÀ LA VERA EUROPA?

Sorprendenti i risultati delle ultime elezioni europee. Sorprendenti, sì, ma non per le ragioni che sono state enunciate da quei commentatori che hanno accolto con sorpresa la vittoria di Renzi e hanno visto come una sconfitta il secondo posto del Movimento 5 Stelle. A noi il successo di Renzi appariva scontato, mentre arrivare al secondo posto da parte di un movimento nato appena da un anno ci sembra un grosso successo, tanto più che ci pare che la campagna elettorale da questo portata avanti sia stata infarcita di errori, il più grave dei quali è stato l’aver rifiutato il mezzo televisivo, col rischio, che poi si è rivelato una realtà, di veder travisati (consapevolmente o semplicemente per una cattiva interpretazione) molti comportamenti. Questo è dimostrato dal fatto che il maggior numero di voti appartiene ai giovani, coloro cioè che sono soliti usare la rete per attingere informazioni, mentre la parte di popolazione più anziana ha preferito rivolgersi alla politica tradizionale. I grillini hanno interpretato questo dato come un rifiuto del cambiamento da parte di chi giovane non è più. Noi saremmo più portati ad attribuirlo piuttosto a una scarsa o nulla frequentazione della rete. Non sappiamo se i loro voti avrebbero comunque scelto la politica tradizionale, ma non ne abbiamo la controprova. Adesso sembra che Grillo si stia avvicinando alla destra europea e ci chiediamo se questo non spiazzerà molti suoi seguaci provenienti da posizioni di estrema sinistra o di sinistra avanzata, e anche questo ci pare un grave errore da parte del Movimento, perché, anche se destra e sinistra hanno perso ormai gran parte del loro significato, resta comunque nella destra un’aspirazione di ritorno al passato e nella sinistra il desiderio di proiettarsi verso un futuro migliore, ed è proprio questo, ci pare, che chiedono i grillini.

Gli euroscettici certamente hanno ragione, visto che l’unione dell’Europa si è concretizzata in maniera molto diversa da come i tanti europeisti che per quell’idea avevano combattuto l’avevano immaginata. Veniva auspicata infatti un’assoluta parità e sovranità fra gli Stati membri e la moneta unica era intesa solo come una delle tanti componenti di un’unione reale, quello che abbiamo oggi invece è un insieme di Stati sottomessi a una centralità bancaria, in cui solo la Germania si pone come nazione guida. Lo scontento è inevitabile, tant’è vero che in queste elezioni si è visto un netto successo della destra in vari Stati, un successo che rischia di portare a un disgregamento dell’unione nel quale non riusciamo a vedere alcun giovamento. Insomma, sarebbe un chiaro tornare indietro, arroccandoci in una chiusura anacronistica che contrasta con tutto quello che ormai fa parte della nostra vita, dal linguaggio alla tecnologia, quindi con l’evoluzione inevitabile della razza umana. Insieme all’affermazione della destra vediamo infatti il nascere della xenofobia persino in quei paesi, come il nostro, in cui l’idea di razzismo era fino a poco tempo fa praticamente sconosciuta, la chiusura mentale di fronte ai problemi degli altri, l’avanzare di un egoismo, sia nei singoli che nei popoli, che pare arretrarci in un lontano passato, quando la vita umana contava molto poco. Tutto questo nasce dagli errori commessi dall’Europa, dalla miopia di un parlamento sovranazionale che non ha saputo gestire un’idea bellissima ma fragile perché proiettata nel futuro, e non l’ha saputa gestire perché composto da gente ancora arroccata nel passato, incapace di gestire il bene di tutti perché troppo egoista per superare il proprio.

Il successo della sinistra in Italia potrebbe dare al nostro paese la possibilità di contare di più all’interno della Comunità. Sempre che i nostri rappresentanti siano consapevoli della grande opportunità che si trovano a gestire. Ma si può gioire di questo solo in funzione di un banale egoismo personale.

La vera sorpresa di queste elezioni ci pare il superamento del quattro per cento da parte della lista Tsipras, che propone una visione dell’Europa diversa da quella fin qui praticata, una visione che si riallaccia a quella degli europeisti che per primi portarono avanti quest’idea, ma non nega l’Europa, tutt’altro. Vuole piuttosto un’Europa che rappresenti un’opportunità per tutti gli Stati membri e non un peso, che li aiuti a crescere e non li soffochi, che raccolga l’identità dei singoli Stati come una ricchezza e non per creare nuove separazioni, senza privilegiarne uno o più sugli altri, poiché non per questo era stata pensata ma perché fosse centro di civiltà e di progresso per sé e per tutti. In un certo senso, vuol dire tornare indietro, all’idea originale, e questo sicuramente non sarà facile e certo la lista Tsipras non potrà farcela da sola, anche se in Grecia i voti ottenuti sono stati tanti, ma si deve tentare, altrimenti si rischia la fine di questa creatura mal riuscita che non ha mai dato l’opportunità di farsi amare.




LA PRIMA EDIZIONE DEL FESTIVAL DELLA FAMIGLIA

Sabato 24 e domenica 25 maggio si è svoltq, tra il Palacultura e il Teatro Garibaldi, la prima edizione del Festival della Famiglia. Un importante appuntamento di dibattito, di confronto e di riflessione sulle difficoltà che la famiglia si trova ad affrontare nella quotidianità dei tempi attuali, soprattutto nei vari passaggi evolutivi, ma, ancora di più, quando intervengono casi di violenza.

Sappiamo tutti che la famiglia è lo scrigno prezioso della società, però nessuno lo tutela, giace dimenticato, tranne nei momenti in cui interviene un fatto di crisi che richiede la presenza dell’autorità giudiziaria, allora l’attenzione si fa massima attorno a quel caso, poi torna il silenzio e scende l’oblio sul forziere che custodisce le nostre risorse.

Per una volta l’attenzione sulla famiglia è stata indirizzata al di fuori dello scoppio di un caso, e, cosa ottima, si ha il proposito di rifarlo periodicamente. Organizzatori dell’evento il Comune, con l’impegno dell’Assessorato ai Servizi Sociali dott. Floridia; l’Istituto di Psicologia clinica; le cooperative Kairos e Arca (settore sociale privato) e, per l’aspetto pubblicistico intrattenitivo, il Consorzio del Cioccolato artigianale di Modica, che per l’evento ha stampato un incarto a tema donando le tavolette di cioccolato a tutti i relatori.

L’intento dell’assessore Floridia è che il Festival della famiglia venga ripetuto sino a farne, a Modica, un appuntamento annuale. Il termine festival vuole infatti richiamare l’attenzione all’appuntamento ciclico con l’intento di ottimizzare l’intervento sulle famiglie, in modo da renderlo sempre più efficace ed efficiente, sia quello delle istituzioni che quello del privato sociale.

L’occasione di confronto sulle tematiche familiari è stato molto proficuo, grazie anche al momento di riflessione, di approfondimento e di sperimentazione concreta tramite i laboratori esperienziali utili a delineare nuovi scenari, nuove architetture e orizzonti nuovi.

Unica nota dolente, la modestissima presenza di pubblico fuori dagli addetti ai lavori, insomma i destinatari sono ancora lontani dall’informazione che fa consapevolezza, cioè lo strumento che costituisce zattera nei momenti di crisi, perché, come recita il proverbio “aiutati che Dio ti aiuta”, non può infatti giungere aiuto se non siamo in grado di cercarlo nei luoghi e nelle persone deputate a farlo.

Ripeterlo il prossimo anno è quindi utilissimo per far dialogare le istituzioni al fine di realizzare una pianificazione condivisa dell’intervento nel momento del bisogno, migliorandone l’efficacia.

C’è intanto da sottolineare che oggi l’unico approccio possibile verso il tema della  famiglia, o meglio delle famiglie, è quello del riconoscimento della varietà, della pluralità, delle differenti declinazioni. L’uso del plurale invece del singolare, è importante al fine di definire i contenuti  delle politiche per  le famiglie, così come è fondamentale tener conto del concetto di complessità, pensando alla molteplicità di relazioni, azioni, esperienze, che si sviluppano in un costante rapporto di interdipendenza e interconnessione.

Intanto non si può non fare riferimento alla drammatica crisi sociale ed economica che sta attraversando il nostro paese e che determina un rilevante incremento dei fenomeni di vulnerabilità, esclusione sociale, conflitto, un aumento delle difficoltà sociali, economiche, di precarietà abitativa, lavorativa, di salute, di incapacità a trovare assetti di auto-mantenimento stabili, obbligando ad impostare modelli di funzionamento familiare improntati alla provvisorietà e insicurezza.

Assistiamo, sempre più, a situazioni in cui le famiglie fanno fatica ad assolvere in maniera adeguata al proprio ruolo, ad essere orientate ai valori della solidarietà, della comunicazione, della condivisione nell’approccio con l’altro.

Siamo consapevoli anche che il disagio è solo in parte dipendente dalle risorse sociali e culturali; esistono elementi deprivanti anche in contesti familiari sufficientemente dotati sia a livello economico che dal punto di vista degli strumenti socio-culturali.

Le famiglie entrano in crisi di fronte alle tappe evolutive del ciclo di vita: la nascita e la crescita dei figli, l’invecchiamento dei familiari anziani.

In tale contesto le difficoltà di rapporto tra le diverse generazioni aumentano e costituiscono una pericolosa crepa della coesione sociale, aggravata dagli stereotipi e dalle discriminazioni che si annidano nei rapporti sociali.

Il ruolo delle agenzie socio-educative è quello di riuscire a  mettere in atto  interventi diversi e differenziati, mirati alle singole storie e ai bisogni contestuali; azioni mirate alla ricerca e alla costruzione di progetti di vita condivisi, tra le persone.

Il Servizio Sociale Professionale ha il compito, in un contesto di riduzione delle risorse disponibili, di riuscire ad ottimizzarle, ripensando e ridefinendo i percorsi, al fine di rendere quanto più efficaci le risposte ai bisogni.

L’utilizzo di contesti ecologici collaborativi, di scambio e di sviluppo di competenze costituisce una realtà essenziale nell’azione quotidiana. Occorre sviluppare meglio una cultura del lavoro di rete, nella complessità organizzativa del nostro tempo, ciò costituisce una sfida e un investimento che va sostenuto e mantenuto.

Così come va riaffermato e rinforzato l’approccio fondato sulla centralità delle persone, in quanto protagoniste esclusive delle loro vite, riconoscimento e rispetto delle differenze, riscoperta della reciprocità e dell’autodeterminazione dei diversi soggetti, valorizzazione del processo di comunicazione e dell’approccio dialogico.

Le buone prassi devono fondarsi su un’adeguata e specifica formazione che permetta agli operatori del territorio di poter fronteggiare efficacemente i bisogni crescenti e complessi che richiedono globalità dell’intervento, disponibilità al lavoro di équipe e al lavoro di rete, sia interprofessionale che interistituzionale.

Alla base del funzionamento di questo modello vi è la necessità di una forte integrazione tra i diversi servizi e professionisti coinvolti, la definizione di protocolli interistituzionali che supportino le buone prassi operative con particolare riferimento alle connessioni tra la componente sociale e quella sanitaria dell’intervento, nonché delle indispensabili sinergie con gli interventi giudiziari in caso di violenza o abuso.

L’intervento deve essere programmato velocemente e in un’ottica “globale” della rete dei servizi, evitando inutili sovrapposizioni e quindi sprechi e garantendo un uso ottimale delle risorse.

A questo proposito determinante diventa il ruolo della politica, che deve assumersi la responsabilità e l’impegno di destinare le risorse e gli strumenti necessari, secondo una prospettiva strategica, di lungo periodo e non dell’emergenza.

Occorre una consapevolezza nuova, che strutturi contenuti di economia e sviluppo per il welfare di domani, che sappia indicare quanto va destinato alle politiche per le famiglie e per le nuove generazioni, non sacrificando, nell’ottica della spending review, settori e professionalità che rappresentano presidi indispensabili per dare risposta alle istanze della collettività, ai diritti di cittadinanza sanciti dalla Costituzione.

 Carmela Giannì




A CCHI N’ARRIDUCIEMU!

L’Italia invecchia e la pubblicità si adegua. In realtà c’è chi ancora, nonostante tutto, continua a procreare ma, essendo quasi sempre extracomunitario a reddito basso – adesso si dice incapiente – non interessa al mercato.

Così, mentre stai a cena e centellini la tua minestrina, la televisione ti migliora l’appetito con dentiere instabili, signore che hanno problemi in ascensore, ossa fragili e giunture doloranti. Cabine doccia rasoterra e vasche da bagno apribili, montascale, reti elettricamente comandate e supermaterassi “in lattice e memory” occupano vasti spazi allo scopo di allettare l’anziano all’acquisto, ma senza comunicare mai il vero costo dell’oggetto del desiderio. Da poco viene proposta anche la pressa per stirare comodamente sedute… ma a che prezzo? In ribasso invece sono le poltrone motorizzate capaci di scodellare il nonno: che qualcuno si sia rotto il femore buttato a terra dalla poltrona?

I pochi giovani che compaiono sui teleschermi sono malaticci o deficienti. C’è chi è reso idiota dal mal di testa e non vede il salvifico cachet anche se la sposina glielo sbatte davanti, ad altri sanguinano le gengive, altri stanno in piedi solo per merito degli integratori multivitaminici. C’è anche il cecato che sbaglia curva allo stadio perché senza occhiali!

Per arrivare in tv un bimbo deve avere almeno la possibilità di liberarsi dal fastidio del pannolino superassorbente delle precedenti pubblicità, che arrivavano a contenere litri di pipì senza fughe indesiderate, ma che inevitabilmente pesavano chili: adesso i filtranti speciali distribuiscono il peso su tutta la superficie, così il pupo corre festoso… finché non arriva la pupù liquida! Ma la mamma, con apposita salviettina imbevuta, pulisce e poi bacia estatica il roseo culetto!

Al fastidio della diffusione martellante del concetto di caducità della vita e dell’inevitabile decadimento fisico, si aggiunge l’insopportabile uso dell’eufemismo.

La pipì è sempre azzurra, l’anziano che entra nella vasca con lo sportello è un quarantenne travestito da settantenne, la signora che usa il montascale per portare su un vaso di basilico è una nonna fichissima che da poco ha smesso di sfilare da top model. Quando questa nonna ha problemi d’incontinenza, mette apposite mutandine, si infila candidi, aderentissimi pantaloni e va a farsi una gioiosa pedalata in bici per raggiunger al parco il nonno che, munito di invisibili apparecchi acustici, si fa felicemente assordare dai nipotini.

E la cellulite? E le maniglie dell’amore? E le vene varicose? Quindicenni androgine prive di curve, palestrati lisci come biliardi con la tartaruga in bella mostra, gambe snelle e tornite vogliono convincerci dell’efficacia di cremine e pasticche: questa ipocrisia è offensiva per chi sa quanto sia dolorosa la cellulite, quanto pericolosa una varice, quanto invalidante un maniglione da panico di lardo addominale.

Signori pubblicitari, lasciateci invecchiare in santa pace, non proponeteci modelli inarrivabili, non offendeteci con proposte di acquisti improponibili per pensionati al minimo, che siamo in maggioranza assoluta! La verità è che la vecchiaia, prima che business, è inevitabile decadenza da vivere con consapevolezza e serena accettazione. Al massimo, come dicevano i nostri avi, potremmo abbandonarci a qualche momento di autocommiserazione: Maria, a cchi n’arriduciemmo!

L.dNP




Da Corcovado alla Giacanta

Foto Enzo Belluardo