LA CELEBRAZIONE DI UN FELICE INNESTO

L’idea di ricostruire la storia dell’impresa scaturisce in occasione delle celebrazioni del 150° dell’unità d’Italia. Franco e Pier Paolo Ruta riflettono sul fatto che l’anniversario coincide con la nascita di Francesco Bonajuto, colui che ebbe la felice idea di praticare l’innesto dei Ruta su un albero familiare che, non avendo avuto figli, avrebbe finito per spegnersi. Criscione, l’autore della monografia a tale riguardo, scrive: “come un albero cambia le foglie secondo il ritmo delle stagioni, restando saldamente piantato sulle sue radici, così l’impresa si trasformò negli anni, senza cambiare la propria natura”.
La coincidenza del 150° spinge gli attuali titolari dell’impresa dolciaria al desiderio di rendere omaggio al loro predecessore, ma anche al desiderio di conoscere la storia che li precede, la sostanza del ceppo sul quale stanno poggiati, il percorso dell’impresa nel tempo, ma anche le biografie di coloro che dalla fine del 700, succedendosi di padre in figlio per ben sei generazioni, l’hanno agganciata al territorio e, congedandosi, ad esso l’hanno consegnato.
Ovviamente l’incarico andava assegnato a chi di mestiere fa il ricercatore storico, a chi ha la passione e la capacità di effettuare ricerche d’archivio e assemblare dati. L’incarico viene dato a Giovanni Criscione che vi lavora con scrupolo.
Nel 2013 la monografia viene edita da Kalòs edizione d’arte. Seguono una serie di presentazioni al pubblico anche in occasioni importanti fra cui “Il Salone Del Libro di Torino”, poi a Montecatini e tanti altri luoghi sparsi in tutta la penisola.
L’altra settimana, a Modica, presso il “Palace Hotel”, si è svolta la tredicesima, organizzata da due associazioni, “Oltre la luna” e “Visione iblea”, che nel loro obiettivo statutario hanno la promozione dell’impresa e delle tradizioni.
L’illustrazione del contenuto e del valore del saggio è stata effettuata, con una relazione attenta e minuziosa, dell’avvocato Diego Guadagnino, anche lui saggista e scrittore. La monografia che ha un’elegante veste grafica, ha destato l’attenzione dei più diffusi media nazionali quali Repubblica, Corriere della sera, Il sole 24 ore, la Rai. Adesso il testo è fra le 62 monografie che concorrono al premio OMI 2014 (organizzato dall’osservatorio monografie dell’istituto d’impresa di Verona).
Il saggio, per il metodo di ricerca che lo sottende: ricerca e studio delle fonti, per l’attenzione nell’analisi dei documenti e del contesto, per il modo in cui è intessuta, va ben oltre l’illustrazione del profilo dell’azienda, risulta essere un lavoro culturale che sa trasformare l’informazione in microstoria, una narrazione documentata che riesce a smitizzare il pregiudizio di un meridione arretrato e privo di iniziativa, piuttosto emerge una storia che mostra il profilo tipico di quello che usualmente viene denominato “made in Italy”.
In questo viaggio nel tempo compiuto dalle ricerche effettuate da Criscione emerge che la famiglia Bonajuto giunge in Sicilia dalla Spagna nel XIII secolo. Il primo esponente di cui si hanno tracce documentarie è Natale, che nella seconda metà del 600 esercita la professione di architetto urbanista attivo nella Sicilia Sud orientale e protagonista della rinascita architettonica di Caltagirone, segue Vincenzo, che esercita la professione di notaio rivestendo incarichi importanti nell’amministrazione della Contea. Nella generazione successiva c’è Francesco Ignazio, che riporta la qualifica di aromatario, una professione a cavallo tra il farmacista e il dolciere. Francesco Ignazio si occupa del commercio della neve, prodotto base delle due branche. Dopo l’unità d’Italia, a causa della supposta vicinanza ai Borboni perde gli appalti della neve e ripiega sulla cioccolata, muore nel 1854 e gli succede il figlio Federico, che esercita come gelatiere e cioccolatiere, egli conosce bene la materia prima e le tecniche di lavorazione per trasformare le fave di cacao in pasta amara e naturalmente conosce bene la pratica azteca per produrre la cioccolata, conoscenze che trasmette al figlio Francesco, che nel 1880 apre il Caffè Roma.
La produzione di cioccolata è un affare, la bevanda e la tavoletta vengono apprezzate dai ceti dominanti, nobili e clero, che la introducono nella loro dieta e la consumano largamente per intrattenere gli ospiti.
All’interno del clero però, secondo lo spirito religioso del tempo (qui lo storico fa la sua parte riportando le note di costume e la dimensione culturale del tempo), si consuma un dibattito che oggi appare surreale, ma secondo la mistica di allora materia viva. La questione, peraltro mai risolta, era: la cioccolata, bevanda altamente calorica, eccitante, fortemente sensoriale, era da considerarsi una bevanda demoniaca o benefico supporto energetico? Ma soprattutto, poteva essere assunta durante il periodo di digiuno o bisognava astenersene? La questione venne accomodata nei fatti, secondo il procedere tipico in ambito ecclesiastico: almeno durante il digiuno bisognava assumerla con moderazione.
Gli affari della cioccolateria di Federico Bonajuto non risentivano delle diatribe, anzi, prosperavano. Federico muore nel 1899 e gli succede Francesco nato nel 1861, ovvero l’uomo dell’innesto, colui che con generosità ed intelligenza consegna l’impresa ai modicani. Morendo, nel 1932, lascia l’impresa in mano alla moglie Carmela Di Martino insieme alla volontà testamentaria di adottare Rosa Roccaro, una ragazza poverissima, risultante orfana, ma in effetti abbandonata dal padre emigrato di cui si erano perse le tracce. La bambina, proprio per questa condizione, frequentava la casa da piccolissima, ne era stata accolta ed amata come una figlia. Il costume dei tempi ruotava su un assioma etico-spirituale essenzialmente umano: “unni manca Diu pruviri”, si era lontanissimi dall’individualismo ed egoismo attuali.
Don Ciccio, per ragioni di tempo non ce la fa ad effettuare l’adozione, ma la moglie porta a compimento la volontà mentre con fermezza dirige la complicata situazione aziendale lasciata dal marito, una situazione complicata sotto il profilo finanziario perché don Ciccio lascia debiti dovuti non tanto all’andamento dell’azienda, quanto alla sua azione filantropica. Egli infatti si faceva carico di provvedere a che i poveri del quartiere Dente, dove lui abitava, potessero disporre almeno dell’essenziale, per questo fine aveva autorizzato un paio di commercianti a fare credito a codeste persone, credito che lui periodicamente onorava. Quando, nel 1932, muore, a questi commercianti non sembra vero di poterne approfittare gonfiando enormemente la lista del debito tanto che la vedova per onorarlo è costretta a vendere immobili, compresa la casa di abitazione ubicata nei locali sopra l’attuale sede della dolceria andando ad abitare in un locale in locazione.
Don Ciccio era un uomo straordinario nel senso etimologico del termine, cioè fuori dall’ordinario, un uomo di taglia umana fuori dalla serie standard, di quelli che vengono al mondo ogni tanto e costituiscono una benedizione per tutti. A differenza dei suoi predecessori imprenditori, di filosofia borghese esclusivamente dediti all’utile d’impresa, crede nel progresso collettivo e si adopera con azioni concrete per realizzarlo, è anarchico e filantropo, ma per agire concretamente sul tessuto sociale diviene socialista attivo, viene eletto consigliere provinciale di Siracusa in una lista di artigiani affiliata al partito socialista. Nel 1921 con l’avanzare e distruggere del fascismo è costretto a lasciare la politica attiva anche se rimane iscritto al partito socialista e per questo schedato ed iscritto al casellario come soggetto sovversivo. Cura anche l’impresa con lungimiranza e spirito imprenditoriale avanzato, nel 1911 partecipa all’esposizione internazionale agricola industriale di Roma e riceve in premio la medaglia d’oro che consacra la sua ditta come “Premiata Cioccolateria”. Apre il Caffè Roma che diviene, nei fatti, circolo di conversazione per i socialisti. Aggiorna secondo la meccanica di ultima generazione gli strumenti utili per effettuare il ciclo completo dalla produzione della cioccolata, dalla tostatura e macinatura delle fave di cacao per la produzione di pasta amara fino alla tavoletta prodotta con la tecnica originale azteca. E’ profondo conoscitore della materia prima e, cosa non comune, trasmette questo sapere a coloro che lavorano con lui, cura insomma la formazione delle risorse umane che lo collaborano.
La sua lungimiranza imprenditoriale lo porta ad intuire l’importanza della pubblicità sulle pagine dei giornali e la usa largamente. Affronta le disavventure del tempo, l’alluvione del 1902 che distrugge buona parte della città e danneggia fortemente la sua bottega.
Il saggio realizzato da Criscione non è solo godibile alla lettura, ma estremamente documentato e quindi utile per il corredo di notizie sulla cornice del tempo, alluvioni, pestilenze, regole igieniche, inefficienza dei poteri istituzionali e tanto altro. Criscione tesse insomma relazioni tra accadimenti e regole d’ambiente, delinea contesti che rendono il saggio interessante anche per chi non è interessato alla cultura d’impresa, perché questa non predomina, piuttosto filtra dalle regole sociali, legislative, dal costume, dallo stato dell’economia del tempo, insomma dal tessuto storico.
Per concludere, veniamo all’innesto felice, all’azione generosa dal punto di vista umano e lungimirante dal punto di vista imprenditoriale: l’adozione di Rosa Roccaro, che conseguentemente all’adozione viene ad assumere il cognome della moglie di Bonajuto, Di Martino. Con questo atto formale l’eredità Bonajuto, di fatto, passa in mano ai Ruta perché Rosa è fidanzata con il collega di bottega Carmelo Ruta, che sposa.
Ruta, diligente apprendista del sapere della tradizione dei Bonajuto, aveva saputo assorbire, come una spugna, il know how accumulato nel tempo dal suo maestro, sapere trasmesso con generosità e lungimiranza ai suoi allievi. Carmelo Ruta era stato particolarmente attento ad imparare non solo le tecniche di lavorazione, ma aveva prestato grande attenzione alla conoscenza della qualità della materia prima, che è quello che fa l’eccellenza del prodotto, oggi annoverato tra le migliori ottanta qualità di cioccolato al mondo.
Dopo la morte di Carmelo, nel 1992, nella gestione dell’impresa subentrano il figlio Franco e il nipote Pierpaolo. Entrambi assumono le redini con l’obiettivo di conservare la tradizione e portarla alla ribalta mondiale. I fatti dimostrano la centratura dell’obiettivo, dato che in questi ultimi vent’anni il cioccolato di Modica è protagonista di uno straordinario successo gastronomico e commerciale. Gastronomico, perché ha conquistato un pubblico sempre più ampio sia da solo che negli abbinamenti più raffinati dell’alta cucina internazionale. Commerciale, perché è possibile trovarlo nei più esclusivi negozi di prelibatezze in Europa, Asia, Australia, Giappone, America del Nord, insomma in tutto il mondo.
Carmela Giannì