Inania
Sin dall’età del bronzo gli abitanti del sito erano stati abili nel realizzare opere d’arte, visto che le stagioni perfette, il clima ideale e la fertilità del suolo, avevano loro concesso molto tempo libero da dedicare al lavoro intellettuale di osservazione, sperimentazione e ricerca. La fatica di procurarsi il cibo era minima e non assorbiva la totalità delle energie delle tribù giunte da ogni parte dei continenti circostanti.
Un piccolo popolo di rozzi pecorari aveva cominciato a far guerre fino a conquistare tutti i residenti della penisola. Che fossero pecorari si capiva anche dal nome che davano alla moneta: pecunia, da pecus che vuol dire pecora.
Quei pastori, oltre ad essere forti, erano anche intelligenti. Dei conquistati prendevano le donne, che sposavano, e le abilità artistiche. Col tempo fondarono un impero che, raggiunto il massimo splendore, cominciò a decadere. Alla fine rimasero alcune genti, culturalmente incompatibili, che i loro sovrani vollero raggruppare in un sol popolo per motivi geografici e di potere. Il più misero dei Re, per misteriose ragioni, prevalse su tutti gli altri e diede il nome alla nuova patria e lustro alla sua casata di caprai, fagocitando il merito d’imprese altrui.
Stufi di soggiacere a un monarca indegno, i cittadini di Inania lo scacciarono e scelsero d’imprigionarsi in una Repubblica.
L’introduzione della Repubblica fu così devastante che ben presto gli abitanti vollero un governo democratico con diritto di voto indifferenziato. Ormai nessuno ricordava l’osservazione di Platone per cui la Democrazia è l’ultimo stadio di degenerazione dello Stato in conseguenza della quale un Dittatore avrebbe facilmente conquistato il potere poiché, quando il bene preteso dal singolo non coincide più con il bene comune, prevale sempre il più forte, che non è il più adatto secondo le leggi della natura.
Infatti, introdotta la democrazia, ogni persona poteva gareggiare per reggere lo Stato, purché riuscisse a persuadere la maggioranza che ne era capace. Solo il potere della convinzione poteva portare al potere dell’amministrazione ed alla sua responsabilità. Il concetto era impeccabile, ma la sua pratica fu disastrosa. In pratica, tutto il paese di Inania fu teatro di scontri indecenti per accedere al governo e, essendo il denaro l’argomento più convincente, governarono coloro che erano capaci d’accumulare più ricchezze. Null’altro sapevano fare costoro che far soldi e venivano ammirati per questa abilità, soprattutto dai tanti servi che compravano e dalle molte donne che mantenevano.
Essi presero a manipolare il popolo per modificare le leggi, in apparenza a suo favore, e invece per crearvi inghippi che giovassero ai loro guadagni. Ed ebbero buon gioco poiché, col tempo, il popolo si era riunito in gruppi, pensando che coloro i quali condividevano le stesse idee sul modo di governare dovessero stare dalla stessa parte e che, diventando più numerosi, avrebbero avuto più peso. In realtà questo li divideva perché ogni fazione aveva una sua opinione che, essendo senza alcun dubbio la sola giusta, pretendeva che prevalesse sulle altre. In conclusione, le varie correnti s’affannavano a contrastarsi l’una con l’altra, senza avvedersi d’avere per padroni dei ricchi epuloni.
Quando se n’accorsero, i cittadini di Inania, detti inani, si abbandonarono al più bieco individualismo, dimenticando quello che erano stati i loro antenati e le loro opere che lasciarono andare in malora perché l’arte non si mangia. L’esercizio di rimozione del passato fu così pesante che non ricordavano più nemmeno quello che era accaduto il giorno prima.
Di tutti coloro che li avevano assoggettati, una sola cosa rimaneva nella loro memoria, fissa e dominante: i vari tipi e gradi di corruzione con cui i governanti avevano raggiunto e mantenuto il potere di soggiogarli. Impostata quindi l’equazione Corruzione uguale Potere, ciascuno s’affannava a farsi corrompere per poter corrompere.
Del resto non ci voleva una particolare sagacia per osservare che chi aveva soldi li aumentava corrompendo chi ne aveva pochi e il corrotto otteneva un fuori busta, maggiore della paga guadagnata con l’onesto lavoro.
L’onestà divenne una malattia endemica che colpiva il cervello dei galantuomini, sicché la società si divise in furbi e imbecilli. Gli intelligenti vennero mandati al confino come pericolosi arruffapopoli. Presi dallo sconforto, alcuni preferirono emigrare prima di venire condotti in ceppi ad espiare la colpa d’avere un ingegno funzionante.
La corruzione divenne la norma e l’avere con quel mezzo un modo d’essere. Essa dilagò a tal punto che divenne l’unico fine dell’agire. Divenne il brodo primordiale al di fuori del quale non era possibile lo sviluppo e il progresso di una qualsiasi forma di vita.
I furbi, per prevalere, avevano bisogno d’un capo e gli imbecilli, per aver voce, avevano bisogno di un duce. Ogni tanto osannavano un capobranco svelto di parola perché facesse le funzioni di capo e di duce, ma durava lo spazio d’un mattino.
L’infinita quantità delle leggi assurde, l’elefantiasi della burocrazia, favoriva il moltiplicarsi dei veti incrociati dei furbi che, per esserlo, se ne fregavano altamente di quel avrebbero causato le loro decisioni, mentre gli imbecilli, per esserlo, non sapevano quel che si facevano.
A quel punto, scese in campo un predone ricchissimo che patteggiò coi furbi di blandire il popolo con promesse che li avrebbero resi ancor più scaltri e ricchi a scapito dei minchioni gabbati. Ma anche il suo tempo passò, senza lasciare eredi.
Alcuni imbecilli provarono ad imitarlo ma, non avendo la stoffa del vero malfattore, fallirono miserabilmente, anche perché misuravano la realtà col metro della loro stupidaggine e gravavano con assurdi balzelli il popolo ormai ridotto alla fame.
Gli inani scelsero di non ratificare col voto i deputati scelti da furbi ed imbecilli, temporaneamente al potere, per rappresentare le esigenze del popolo.
Anche l’astensione non ebbe alcun effetto. Le tasse aumentarono per aumentare il bottino dei ladri che perfezionarono i metodi di corruzione a tali livelli di raffinatezza da indurre a credere che la corruzione fosse un farmaco miracoloso capace di far diventare intelligenti i furbi e assennati gli imbecilli.
Posto di fronte a simili portenti, il mondo stupì e volle imitare il made in Inania. Fu così che s’estinse la tigre siberiana, la scimmia del Borneo, l’orso marsicano, la megattera, la foca monaca e tutte le specie di mammiferi liberi in equilibrio con la natura.
L’uomo squilibrato, convinto di potersi moltiplicare all’infinito, distrusse la terra distruggendosi.
In tutto il pianeta sconvolto, dentro una piccola nicchia sconosciuta dalla maggioranza, di tutta la specie umana sopravvissero alcuni selvaggi anarchici che sostenevano da sempre che la natura poneva nel cuore di ogni essere vivente le sue leggi e che l’uomo doveva obbedire al suo cuore.
Solo questi zotici si salvarono per la loro costante convinzione che bisogna rispettare la natura e vivere in armonia con essa, insegnando a capirla ai bambini ancor prima che divenissero adulti e che solo in questo modo, dopo aver adempiuto completamente tutti i doveri che ciò comportava, si conquistava il diritto di riceverne i doni.
Onestamente nessuno sa se, quando crebbero e si moltiplicarono, essi rispettassero i principi per i quali s’erano salvati, ma non si ha motivo di nutrire false speranze.
Già fra i miti di un remoto passato, secondo un libro immeritatamente famoso, si raccontava della sperimentazione di un nuovo inizio fragorosamente andato a male.
Sascia Coron