Due settimane fa si è spenta, all’età di ottanta anni, Francesca Garofalo vedova Turlà. C’è nel mio intimo un ricordo di lei così vivo e così speciale che sento il dovere di condividere.
L’ultima volta che l’avevo vista, il 10 agosto scorso al teatro di Cava Pietra Franco, aveva un aspetto un po’ provato, era pallida, appariva stanca, e poiché quella sera non ebbi modo di comunicare direttamente con lei, pensai tra me che fosse da attribuirsi all’effetto della calura estiva su un corpo anziano. Credo fosse proprio così.
Mi rammarico comunque di non avere potuto cogliere, quella sera, l’occasione di scambio comunicativo, quella consueta conversazione che ogni volta era, per me, occasione di arricchimento e di stupore. Confesso che mi succede raramente di uscire arricchita da un dialogo, con lei mi succedeva sempre, il discorrere con Francesca mi caricava di stupore, di bellezza, d’incanto, di meraviglia e spesso di ammirazione; non c’era niente di artefatto o di erudito nelle sue affermazioni, c’èra solamente autenticità, forza, coraggio, virilità rivestita di umiltà. Conversare con lei era un volare alto!
Qualunque fosse l’argomento di conversazione l’arricchimento che mi trasmetteva proveniva da saggia riflessione sulla cosa. Lo stupore me lo suscitava l’originalità del contributo, aggiungeva sempre qualcosa a cui non avevo pensato, metteva in luce un aspetto su cui non mi ero soffermata.
Per evitare che quanto affermo sembri retorica lode gratuita, porto un esempio: quando il teatro di Cava Pietra Franco fu ultimato mi venne spontaneo congratularmi per la scelta del sito, sottolineando la suggestione che emanava dalla luce riflessa sulla pietra scavata e Francesca aggiunse: “questo teatro vuole essere un monumento a coloro che hanno speso la vita in estenuanti fatiche a ritagliare questa pietra, perché succede che tutti ci soffermiamo sulle statue, sugli artefatti, lodiamo l’artista, ma nessuno pensa a quegli esseri che si sono rotti la schiena per tirare fuori il blocco di pietra”. Questa dedica e questa sottolineatura mi giunsero al cuore come un colpo di lama. Per giorni ci pensai sopra, meditai sulla dedica alle persone umili ed anonime, meditai sull’attaccamento di Francesca alla sua gente, alle sue origini, alla sua terra.
Francesca Garofalo era una donna di esemplare intelligenza, di esemplare capacità elaborativa ed espressiva, sapeva porgere sulle cose, sempre, un concetto essenziale, distillato, depurato da fronzoli, sapeva, in ogni occasione, porgere concetti rari, perle pescate dove nessuno guardava. Era capace di profonda riflessione, di attenta osservazione e meditazione sull’essenza della vita e del vivere.
Chi l’ha seguita sul crinale dell’aspetto religioso sostiene che ha vissuto una fede senza fronzoli, chi, come me, l’ha osservata sul crinale del vivere civile ne ha potuto constatare la resistenza tenace in una battaglia senza armi, condotta con coerenza e con dignità.
Si è mantenuta nelle sue posizioni senza dimenticare le sue origini, con lucidità e spirito critico ha constatato prevaricazioni e fatto i conti con il cinismo e l’opportunismo dei tanti che predicano bene e razzolano male. Ha tenuto la testa alta ed è andata avanti in silenzio, senza strillare, ma senza desistere.
Nel 1993, in occasione della pubblicazione redatta da Ercole Ongaro “Una donna, la terra e la mafia”, che narrava la vicenda della sua resistenza civile contro i poteri (economici, burocratici, civili, con la latitanza di quelli religiosi) che si erano opposti alla sua volontà di occuparsi direttamente delle tenute lasciatele dal marito prematuramente scomparso, la Consulta Femminile, organismo di cui allora facevo parte, decise di incontrarla; lei con il suo consueto modo di distillare l’essenza delle cose esordì nell’assemblea dicendo: “Il patriarcato è un aspetto della mafia”.
Poi argomentò la sua tesi raccontando aneddoti che la riguardavano, ogni aneddoto un paradigma dell’assioma da lei profferito, uno per tutti: una donna compra pellicce, non capi di bestiame. Proveniva dal direttore della Banca a cui si era rivolta per ottenere un prestito (avendone le dovute garanzie di copertura) che le consentisse di sviluppare l’azienda.
Poi, su iniziativa della Consulta Femminile, aveva accettato di buon grado di partecipare a delle assemblee nelle scuole, per portare presso i giovani la sua testimonianza d’impegno contro quell’aspetto della mafia che tenta di uccidere con il veleno a goccia lenta della sordità, delle omissioni, dei suggerimenti velati, dell’immobilismo di fronte alla rivendicazione di un diritto. Francesca esponeva con semplicità le vicende affinché le ragazze potessero prenderne esperienza, esempio, consapevole dell’indispensabilità dell’azione culturale sulla coscienza integra delle ragazze vittime inconsapevoli di un’educazione che le induce alla subalternità.
Nonostante le difficoltà incontrate nel suo cammino, pioneristico, di soggetto consapevole dei suoi diritti da affermare in un mondo che, con le armi della denigrazione, dell’oltraggio, della delazione, della negazione, le opponeva un muro di gomma per farla desistere, lei non si è fermata, si è cimentata in tante imprese, l’ultima, insieme ai figli Bartolo ed Elisa, il succitato monumento agli operai estrattori di pietra dalle cave, il magnifico teatro e ristorante posto sulla collina dell’Idria in uno scenario da mozzare il fiato per lo squarcio cui espone l’occhio del frequentatore, sia esso residente o turista.
Lascia a tutti noi un’eredità d’esempio che va onorata, le siamo grati per questo. Adesso è giusto che finalmente riposi in pace.
Carmela Giannì