La Modica di Enzo Belluardo

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All’inizio, fu il baratto.
Fino al VII secolo, prima dell’Era Volgare, i beni e i servizi si scambiavano tra la gente secondo liberi accordi: sei uova per un cesto di fichi, due pecore per un maiale, venti cammelli per una moglie. Poi qualcuno ebbe l’idea di comprare dando in cambio cose a cui si attribuiva un valore in quanto rare e pregiate, fossero conchiglie, pietre colorate o sale marino. Il passo successivo vide la creazione di monete metalliche, il cui valore corrispondeva alla quantità d’oro o d’argento da esse contenute. Le monete avevano però un limite propriamente fisico al loro uso: per trasportare valori importanti occorrevano ingombranti e pesanti cofani, golosamente attrattivi per i predoni. Anche portarsi appresso una scarsella ben fornita esponeva a perdite o a rapine.
Così, nel ‘300, ad astuti banchieri toscani – c’erano già allora – venne l’idea di dare valore a pezzi di carta con su scritti impegni di controvalore: nacquero gli assegni, le tratte, le cambiali. Le monete metalliche, che erano soggette a dolose limature di alleggerimento, cominciarono ad avere valore solo formale, coniate in leghe metalliche meno preziose. Gli Stati iniziarono poi a stampare le banconote su carta, il cui valore era ovviamente solo nominale ma, fino a poco tempo fa, ancora convertibile in oro. Fu il generale deGaulle che mise in crisi il sistema di parità tra oro e cartamoneta chiedendo agli Stati Uniti di riscuotere i crediti francesi non più in dollari, ma in oro. Ormai, quel vecchio sistema è saltato e l’economia mondiale non gira più neanche su carta, ma in forma virtuale grazie alle alchimie tecnologiche dell’era di Internet.
Dato l’addio alle cedole, ai buoni fruttiferi, alle azioni, alle obbligazioni da conservare in cassaforte assieme ai carnet di assegni, ai risparmiatori non resta che affidarsi alle banche che, nate come imprese di gestione del prestito, si sono trasformate quasi tutte in banche d’affari. Affari che, a quanto pare, sono sempre meno puliti e condotti in maniere poco trasparenti. Tant’è: lo strapotere di pochi plutocrati ha portato alla globalizzazione dell’economia e ci costringe, per legge, ad essere “clienti” in balìa delle banche.
Forse soltanto Big Foot o lo Yeti possono sopravvivere senza carte di credito o conto corrente, a patto di non abbandonare i propri habitat selvaggi. Per noi, povera gente comune che vive nel mondo cosiddetto civile, è diventato complicato pagare in contanti un abito o una lavatrice ma, se si ha la partita IVA, financo le tasse! Il tutto poi in nome della repressione dell’evasione fiscale… viene da ridere – per non piangere – sapendo come il fisco viene frodato alla grande proprio grazie a un veloce colpo di mouse.
La crisi che ancora non passa la dobbiamo alla finanza perversa che ha gettato nella miseria intere nazioni e completamente azzerato il ceto medio. Spericolati giochetti portano le banche al fallimento travolgendo i risparmiatori, ma il più delle volte vengono salvate ope legis dallo Stato o dall’Europa, ma sempre a spese dei poveri gonzi che si sono fidati dei preziosi consigli di brokers, family bankers, promotori finanziari, direttori di banca, amici bancari. Praticamente la Banka Bassotti.
La cronaca di questi giorni abbonda di scoop sui retroscena del salvataggio di quattro banche, apparentemente modeste e di interesse locale ma in realtà capaci di drenare i risparmi di intere città. Conosciamo i nomi e le facce dei responsabili, sappiamo con quali metodi, anche perversi e ricattatori oltre che profittatori dell’ingenuità e dell’ignoranza dei piccoli risparmiatori, costoro abbiano malversato per anni. Ci è stato fatto capire come gli organi preposti al controllo non lo abbiano esercitato, adombrando inettitudine o addirittura complicità. La ministra BellaBoschi, ancorché salvata in Parlamento dalla sfiducia, è comunque in odore di conflitto di interessi per il ruolo ricoperto dal padre all’interno della dirigenza della Banca Etruria: il sospetto dell’uomo della strada è che siano state salvate dal tracollo solo alcune banche per l’interesse di chissà chi e che ci siano tantissime altre bombe similari non ancora rese pubbliche, pronte a deflagrare.
Altra granitica certezza è che, comunque, il traffico dei derivati tossici e delle obbligazioni subordinate continui indisturbato grazie agli incentivi economici principeschi elargiti ai dipendenti procacciatori di clienti.
È sconcertante e destabilizzante vedere che nessuno, dico nessuno, di coloro che avrebbero il potere-dovere di farlo, abbia ventilato l’ipotesi che siano i banchieri, sfilandoselo dalle voraci tasche, a restituire il maltolto frodato.
In questo Paese dove, a quanto pare, non esiste più il diritto e dove essere onesti equivale ad essere cretini, non ci si può fidare nemmeno della propria ombra. Travolti dalle bufale propalate via web e dalle menzogne più spudorate – l’ultima per adesso è quella del cardinal Bertone, ennesima anima candida al quale, “a sua insaputa (!)” , è stato ristrutturato l’attico a spese e in danno dell’Ospedale Bambin Gesù – non ci resta forse che dare retta agli implacabili televenditori. A molle insacchettate, in lattice naturale o in memory, il materasso è il ricovero più sicuro per nostri quattrini.
Come ai bei tempi di Arbore e della televisione intelligente, “nel materasso c’è la felicità!”
Dormiamoci sopra, e buone feste a tutti!
Lavinia de Naro Papa
Nel centenario della guerra (1915/18) la “Fondazione Grimaldi” in sinergia con il “Museo della memoria” e con il Liceo “Gallilei/Campailla”, ha realizzato una grande mostra documentaria. Grande nel senso di vasta e ricca, ma anche grande per l’obiettivo didattico che si prefigge.
La mostra, utile sottolinearlo, è organizzata con un metodo illustrativo assai efficace: innanzitutto un preambolo, esposto sulle pareti della scala del palazzo che, che tramite istogrammi, illustra le cifre (morti, feriti, mutilati, vittime civili, decorati, assistiti).
A distanza di un secolo i testimoni sono praticamente scomparsi, quindi introdurre tramite i numeri l’entità del fenomeno è indispensabile per attivare la giusta attenzione sul disastro, specialmente in un’epoca in cui di guerre sparse nel mondo ce ne sono parecchie che, come sempre, causano sofferenze umane indicibili.
La mostra, che occupa le varie sale del palazzo, raccoglie ed espone immagini, documenti e reperti, e vi aggiunge una sezione frutto della creatività: una reinterpretazione della guerra vista con gli occhi dei ragazzi del Liceo, che, tramite il loro genio creativo forniscono immagini frutto di rielaborazione della documentazione sui fatti. Voglio subito precisare che questa sezione apparentemente altra rispetto alla poderosa documentazione esposta è di grandissima rilevanza perché costituisce una dimostrazione visiva di come la psiche umana, elaborando, è capace di trasformare in maniera visionaria emozioni e traumi.
La prima sezione è dedicata al “Lutto”. Dà conto e rende omaggio ai 790 modicani caduti al fronte. Espone le foto di molti eroi, alcuni dei quali decorati (590 decorati al valore militare, 2 medaglie d’oro, 200 medaglie d’argento, oltre 500 medaglie di bronzo, e tante croci militari). Ne emerge un racconto di eroismo per tanti motivi ai quali è sottintesa l’unità nazionale.
La seconda sezione “Al fronte” illustra la guerra di trincea, ovvero il macello umano, l’umiliazione dell’individuo tramite privazioni e sofferenze. Evidenzia quindi anche la disillusione rispetto alla motivazione ideale dell’unità della patria. Mostra insomma come la guerra non è solo eroismo ma anche prigionia, sconfitta, diserzione, fuga.
Un’altra sezione è dedicata al “Fronte interno”, cioè la vita nei paesi privati dai giovani maschi, una realtà costituita da donne e vecchi. Questa sezione documenta l’attività delle amministrazioni locali per aiutare i soldati al fronte. Mostra come l’attività dell’ente locale venga completamente stravolta, assorbita totalmente dalla guerra, tutta impegnata a deliberare i sussidi alle vedove, gli aiuti per gli orfani, le indennità di disoccupazione per chi non ha reddito da lavoro a causa del conflitto. E non secondaria l’attività diretta ai soldati tramite pacchi contenenti viveri, indumenti che le donne s’industriavano a confezionare per alleviare le sofferenze dei loro congiunti al fronte. A fianco dell’ente amministrativo l’attività della croce Rossa che si attiva per spedire cibo, pane, formaggio, sigarette e tutto quanto d’indispensabile per la resistenza sul fronte.
Una sezione è dedicata alle “Scritture”: diari di guerra, lettere, cartoline, giornali, testi letterari, autobiografie. Comunicano tutti gli uomini al fronte, tutti, anche gli analfabeti, scrivono tramite altri a cui dettano i loro pensieri, comunicano il loro stato, chiedono notizie dei parenti a cui sono stati strappati dall’evento, richiedono aiuti per potere resistere. Comunicano per bisogno e per esorcizzare paure e solitudine, per combattere la nostalgia, per sentire il calore degli affetti con cui consolarsi nella tragedia che si trovano a vivere.
Inutile ricordare che quasi la totalità dei giovani si trovava lontano dalla famiglia per la prima volta, lontano dal luogo natio senza una ragione personale, ma scaraventata dall’evento.
Questa sezione, lirica e sentimentale, mostra non solo la ferita degli affetti, la lacerazione dei legami, lo smembramento delle famiglie, ma anche lo stato di funzionamento sei servizi postali dell’epoca, che, a dire il vero, fanno un po’ invidia se guardiamo il servizio postale attuale: le cartoline arrivavano in 2 giorni. Un miliardo di pezzi postali, stampati in franchigia e recapitati dal fronte alle famiglie. Insomma dalla documentazione esposta emerge il livello di civiltà del popolo.
La sezione dedicata alla “Memoria” (monumenti ai caduti, pubblicazione dell’albo d’oro con tutti i nomi dei caduti e la causa di morte).
Monumenti che ogni città e ogni paesino ha fatto edificare per rendere onore ai martiri e per elaborare il lutto tramite un simbolo d’onore che risarcisce la perdita. Monumenti che si trovano nel cuore di ogni città e rappresentano un punto di riferimento, c’incontriamo al monumento, oggi è un luogo, ieri un Altare. Non dimentichiamolo!
Modica non ha solo il suo monumento di piazza al milite ignoto, altro Altare è il Liceo Classico, la trabeazione di ogni aula è dedicata ad un concittadino ingoiato dalla tragedia.
L’evento guerra è presente in pitture, sculture, nelle tombe in necrologi, insomma se abbiamo occhi per vedere, se il sonno della ragione non ci ha bloccato le facoltà intellettive, i segni sparsi sono innumerevoli, costituiscono il segno di un evento su cui i politici del dopoguerra, testimoni della tragedia, hanno scritto la Costituzione inserendovi il ripudio della guerra.
Ricordare per onorare, per imparare, per riflettere ed impostare il nostro agire e il nostro esistere, per pensare al domani, per fare partecipi i giovani di una storia familiare che l’altro ieri ci ha invasi e travolti come un terremoto, come un’alluvione, come una valanga inaspettata, anche se, per i consapevoli prevedibile, era infatti scritta nella politica e nel potere.
La qualità della mostra è dovuta a un motore turbo che l’ha pilotata: la professionalità e il metodo scientifico del prof. Uccio Barone, ovviamente in sinergia con tanti altri anonimi operatori che attorno a questa realizzazione hanno faticato.
E’ un’eccellente occasione per documentarsi, l’esposizione continua per tutto il mese prossimo e un po’ di tempo nel periodo natalizio ciascuno potrà ritagliarselo, visitarla vale davvero la pena.
Carmela Giannì
A Natale il mondo occidentale è invaso da un’atmosfera particolare che spinge la gente a concentrare la propria attenzione solo su questa festa. Radio e tv vanno a riesumare i Jingle bells e gli White Christmas di Frank Sinatra e Bing Crosby, tutti i canali televisivi trasmettono film sciropposi su Babbi Natale, bambini buoni, persone che sembrano cattive ma poi si rivelano buone, paesaggi innevati di neve candida che resta candida qualunque cosa accada, insomma quello che vedete e ascoltate tutti appena prendete in mano il vostro telecomando. Che i negozi e le strade dello shopping si addobbino a festa fin dai primi di dicembre e qualche volta persino da metà novembre è comprensibile, visto che i commercianti puntano su questo periodo in quanto il più proficuo per la loro attività, pertanto cercano di allungarlo il più possibile, ma che persino i media riducano lo spazio per tutte le altre notizie per dare risalto alla celebrazione del Natale lascia perplessi. Eppure, a ben rifletterci, ci rendiamo conto che in questo periodo la gente, la maggioranza della gente, vuole affondare in un’illusione di serenità per anestetizzare le preoccupazioni, i problemi, le angosce. Ne ha bisogno e i media gliela devono dare, perché anche i media, come i commercianti, devono vendere il loro prodotto.
Il nostro giornale, come ormai ben sapete, non ha finalità commerciali, quindi quest’anno, senza esigenze di audience, vuole volgere lo sguardo all’altro Natale, quello che non scintilla di luci, che non dispensa regali, che non s’illumina di serenità. Forse perderemo qualche lettore, ma quelli che ci conoscono davvero, che ci capiscono, e che per questo ci seguono da tanti anni, saranno dalla nostra parte.
Non è a quello che viene definito il Natale degli ultimi che noi pensiamo, perché di questo se ne parla, se ne parla perché si raccontano le mense organizzate dalla Caritas e dai gruppi di volontari sparsi in tutto il paese per far sentire tutti noi più buoni, visto che ci occupiamo di coloro cui non pensa nessuno, visto che dispensiamo cibo e gioia. E la gioia in questi giorni è obbligatoria.
No, noi vogliamo parlare del Natale senza gioia.
Ci sono persone che vorrebbero che queste feste non arrivassero mai.
Ci sono le persone sole, non indigenti, non malate, perché in tal caso qualcuno che gli organizzerebbe un pranzo o una visita di Babbo Natale ci sarebbe. No, pensiamo alle persone semplicemente e veramente sole, senza parenti e senza amici, quelle che passeranno il Natale come tutti gli altri giorni, senza alcuna voglia di cucinarsi un pasto diverso, senza alcuna voglia di addobbare un albero di palline colorate per guardarselo da sole, senza alcuna voglia di uscire per doversi stampare sul viso un sorriso che non viene da dentro, senza alcuna voglia di accendere il televisore e, su ogni canale, dover assistere alle feste degli altri.
Ci sono le persone che in passato hanno vissuto tanti Natale di sogno, proprio quelli dei film, pieni di calore, d’amore, di risate, ma ora chi quel calore, quell’amore, quelle risate gliele ha regalate per una volta o per mille volte non c’è più e quell’assenza, quel vuoto, non potranno essere né colmati, né sostituiti, né addolciti da una canzone.
Ci sono le persone che stanno vivendo il Natale accanto a qualcuno che sanno non potrà vedere il prossimo e vivono l’angoscia dell’altro e forse ancor più la propria con uno strazio ingigantito proprio da quei suoni, da quei colori, da quella gioia da cui si trovano accerchiati.
E’ a queste persone che va oggi il nostro pensiero. Non è, non può essere, un pensiero di speranza o di augurio. E’ un pensiero di comprensione e condivisione. Coraggio, amici, anche queste feste, per fortuna, passeranno!
I dirigenti acatesi del Modica Calcio, traditi dalle false promesse del’amministrazione comunale e dall’atteggiamento dei tifosi modicani, hanno deciso di abbandonare Modica per giocare le partite al comunale di Vittoria, dove l’assessore locale ha dato loro la disponibilità dello stadio gratuitamente.
Tanta la rabbia dei dirigenti del Modica, con un’amministrazione sorda agli appelli della società, con un sindaco irrintracciabile. Oggi sono venuti fuori debiti delle passate società, tra cui i 40000 euro per i giocatori dell’Azzurra schierati nella gestione del duo Bellia-Failla, ma anche di una super bolletta dell’Enel di 15000 euro della passata stagione, ossia tra il 2013 e il 2014. A questo si aggiunge la lentezza degli interventi allo stadio, ancora oggi parzialmente agibile, la promessa non mantenuta da parte dell’amministrazione comunale di comprare 300 abbonamenti da regalare ai ragazzi delle scuole, il completo disinteresse, sempre da parte del sindaco, di interessare sponsor modicani per aiutare economicamente la società. Infine, la società si sente ancora più tradita dagli stessi tifosi, ancora latitanti e, in più, tra i tifosi dell’Acireale nella gara del 21 novembre. I dirigenti Iacono e Occhipinti di fronte a questa montagna di problemi hanno chiesto a Bellia di riprendersi la società nonostante gli investimenti fatti, ma si sono sentiti rispondere un perentorio no grazie
Che l’amministrazione comunale con in testa il sindaco Abbate abbia fatto poco o nulla lo abbiamo visto anche con la società guidata dal presidente Cundari e successivamente dal sodalizio del duo Bellia-Failla, che, invece di aiutare la società calcistica modicana, faceva spallucce, facendo prima scappare Cundari sbattendo la porta, nonché i due modicanissimi Bellia e Failla che, fiutata una montagna di debiti, hanno pensato bene di rimettere tutto sulle spalle del sodalizio modicano targato Acate. Sono lontanissimi i tempi in cui l’amministrazione comunale era il primo sponsor della squadra, tra gli anni 70 e 80, il Modica veleggiava in quarta serie e lo stadio era strapieno Recentemente, finiti i fasti dei soldi a pioggia da parte dello Stato e ormai con i conti comunali in rosso fisso, un solo sindaco è stato vero signore da pagare la quota di iscrizione di tasca propria. Oggi il calcio locale è in coma profondo, con la prima squadra che emigra e due squadre minori, il Frigintini e la Modicanese che arrancano in prima categoria. Spiace di più sapere che sponsor modicani aiutano società calcistiche campanilisticamente nemiche come Ragusa e Siracusa. Intanto molti calciatori modicani cercano fortuna altrove, mentre sono vergognosamente assenti i paperoni locali, non essendo per niente attratti dal barnum calcistico.
Pretestuoso poi, il comunicato stampa del comune di Modica di venerdi 11: in pratica l’amministrazione comunale si sente offesa dal comportamento dei dirigenti acatesi del Modica e li invita a disputare le gare della squadra al Pietro Scollo piuttosto che a Vittoria. Di tutto parla il comunicato stampa tranne del vero motivo per cui i dirigenti Iacono e Occhipinti hanno puntato i piedi, ossia gli accordi di inizio torneo con il sindaco Abbate. Potrebbe essere una svolta, ma ormai si nutrono grossi dubbi in merito.
Alla luce di quanto descritto vanno in secondo piano le prestazioni sul campo della squadra che, anche se non brillano in risultati con l’imbarcata di figuracce su figuracce, la squadra si è sempre battuta con impegno, con qualche giocatore interessante ma, ormai, a meno di un improbabile dietro front da parte degli interessati, è ormai storia passata. La squadra della Contea è destinata a sparire tra l’indifferenza di tutti!
Giovanni Oddo
“Il Natale non è una festa di pochi che spesso chiudono gli occhi al dolore, ma di tanti che con estrema delicatezza li aprono alla sofferenza riempiendo il loro cuore di amore.
Il Natale è la celebrazione di un’attesa, è speranza, è rispetto, è dignità.
Il Natale è relazionarsi tutti i giorni, crescere man mano, respirare e sorridere insieme alla gioia e al dolore.
Il Natale è il pegno di una vita più umana, una vita ricca di senso, capace di esprimere in gesti e parole la bellezza e la luce, echi di quella luce che brillò nel buio di Betlemme. Luce che deve brillare anche oggi in ogni luogo avvolto dalle tenebre e dal non-senso.”
Buon Natale a tutti dai volontari Lilt (Lega Italiana Per La Lotta Contro I tumori) dell’Hospice di Modica che il 13 dicembre 2015 alle ore 17,30 hanno celebrato la festa del Santo Natale insieme ad alcuni degenti del reparto e ai loro parenti che li assistono e parte del personale medico fra cui il primario dott. Vittorio Cataldi, Michele Cappello psicologo, Marilena Lao assistente sociale, Rosalinda Arena psicologa della Lilt di Ragusa; non è mancata la presenza del presidente della Lilt di Ragusa, Maria Teresa Fattori, e del direttore generale della Lilt di Palermo, Francesca Glorioso, che hanno condiviso lo scambio di auguri ricambiando da parte di tutta l’associazione per tutti i presenti e per tutti i volontari stessi.
Alcuni volontari si sono esibiti leggendo brani di prosa e poesie dedicate al Natale alternandosi al gruppo modicano “Muorika mia” e alle loro canzoni sul Natale prettamente dialettali, allietando la serata in una commossa e bellissima atmosfera natalizia per tutti i presenti. Altri volontari si sono prodigati per la parte organizzativa, per il rinfresco finale che hanno offerto, per la pesca allestita e per tanti altri eventi che li tengono a turno sempre impegnati. Infatti i volontari Lilt non affiancano solamente il personale medico del centro allietando col loro operato (colazioni, caffè, cioccolata calda, torte salate e dolci) e i loro sorrisi gli ospiti del reparto, ma, a turno, durante l’anno organizzano e partecipano attivamente a tantissimi eventi organizzati da loro stessi o anche dalla Lilt di Ragusa, riuscendo a coinvolgere artisti, cantanti, figure mediche e ospedaliere. Quest’anno hanno esteso le colazioni in altri reparti dell’ospedale Maggiore di Modica, organizzando dei coffe breack e dei pranzi solidali durante alcuni convegni aziendali. Hanno partecipato il 31 marzo alla giornata del sollievo, in piazza Matteotti a Modica, sensibilizzando e informando la gente sul loro operato, sulle cure palliative e su quanto sia importante la prevenzione. Hanno partecipato al Mercatino di Natale organizzato dall’associazione “Clarence” che si è tenuto presso la Chiesa dei SS. Nicolò ed Erasmo, nei giorni sabato 12 e domenica 13 e sabato 19 e domenica 20 dicembre e del quale parte del ricavato, grazie all’associazione Clarence che ha coinvolto diverse attività artigianali, è stato devoluto ai volontari Lilt dell’Hospice di Modica. I volontari hanno inoltre, durante l’anno, allietato compleanni ed eventi speciali dei degenti e festeggiato insieme a loro la primavera, la Santa Pasqua, la festa della mamma, del papà, di Santa Rita e tante altre, perché in questo reparto e in tutti i posti dove il dolore si tocca con mano, Natale è tutti i giorni e tutte le volte che si regala e si riceve un sorriso….
Buon Natale a tutti dunque, con un grande sorriso, dai volontari Lilt dell’Hospice di Modica e da tutta l’equipe medica del reparto,
Sofia Ruta
Ogni giorno la cronaca riporta episodi sempre più sconcertanti di malversazioni, concussioni, peculato, corruzione e quant’altro ricada nel malaffare, operato da pubblici servitori dello Stato furbastri a vantaggio proprio e dei propri parenti, amici o sodali, e in danno e spregio dello Stato che pure rappresentano e che li mantiene, cioè di tutti noi, popolo italiano.
A chi ritienga tutto ciò un malanno passeggero del nostro Paese, dedichiamo la descrizione che, nella sua Cronica, Dino Compagni fa dei Priori delle Arti di Firenze:
«Se l’amico o il parente loro cadea nelle pene, procuravano con le signorie e con li uficiali a nascondere le loro colpe, acciò che rimanessono impuniti. Né l’avere del Comune non guardavano, anzi trovavano modo come meglio il potessono rubare».
Correva l’anno 1282. Quello che rovina noi italiani non è il male in sé. Sono le ricadute.
Ringraziamo la Società Dante Alighieri per questa calzante citazione di antico, atavico, sempiterno malcostume, ricevuta per e-mail.
ldnp
In premessa vorrei far presente che io considero il “modicano” una lingua e non un dialetto.
Ho definito il “modicano” un’isola linguistica nel parlato siciliano. Ne differisce per i suoni sussurrati e per le consonanti percussive D e T addolcite, come il suono di corde di pianoforte con la sordina, parole che creano una melodia fonetica nuova e apprezzabile. Le consonanti, messe in sordina, diventano vellutate, ma a volte si raddoppiano all’inizio di parola. Sorge il problema di contrassegnare le consonanti in modo da attribuire loro la fonetica esatta. In tipografia qualche sapiente ha creato nuove lettere, quasi a voler accaparrarsi l’esclusiva degli scritti, mentre si può usare la H per contrassegnare la lettera “dolce”. In tal modo si può scrivere in lingua modicana con una normale tastiera.
L’intensità fonetica, indicata con i raddoppio della consonante all’inizio della parola è causata anche dalla elisione della A.
Non tutte le consonanti presentano alterazioni fonetiche per cui si elencano le anomalie.
La B non presenta anomalie.
La C presenta due varianti fonetiche all’inizio della parola: una C dolce nelle parole: cantu: canto; camella: ciotola; cunsari: aggiustare, ciantu: pianto, etc. Si raddoppia nelle parole: ccappieddhu: cappello; ccappuottu: cappotto; ccattaturi, accattaturi: compratore, ma in questo caso è stata elisa la A iniziale (accattaturi), etc.
La D è analoga alla lingua italiana nelle parole: dalia: dalia; damascu: damasco; datazioni: datazione, datatu: datato, etc.
Si pronuncia con un altro suono, ma raddoppiata, che viene segnalata con l’aggiunta di una H per evidenziare la diversità fonetica, strategia necessaria per potere scrivere con una tastiera normale, mentre alcuni cervellini hanno creato un altro carattere con una cediglia sotto. Nelle parole: ddhuoppu, addguoppu: dopo, ddhattili: datteri; ddhurmisciutu, addhummisciutu: addormentato.
La D si addolcisce o anche viene sostituita dalla R, ma una R più sussurrata che dura o raddoppiata come in certe parole rhui: due, Roma: Roma, rruffianu: ruffiano.
La F non manifesta differenze fonetiche.
La G presenta il raddoppio iniziale contrassegnata con la lettera H per indicare un suono molle come nelle parole gghimmusa: cimosa, gghigghiulena: sesamo, gghigghiu: tempia, gghiommiru: gomitolo, gghirasa: ciliegia, gghiummu: fiocco.
La G dura si ha invece in altre parole come: giallu: giallo, giardiniera: giardiniera, gumma: gomma, etc.
La L presenta il raddoppio iniziale in alcune parole, per elisione della A come ad esempio: llamatu, allamatu: vorace come un pesce che abbocca all’amo, llampatu, allampatu: colpito da un fulmine, llurdiatu, allurdiatu: sporcato, etc.
La M presenta normale fonetica da singola iniziale, mentre si raddoppia in alcune parole come: maccarruna: maccherone, meusa: milza, mangiatariu: pappone etc, ma anche: mmuccalapuna, ammuccalapuna: credulone, mmaciari, ammaciari: sedare, mmarreddha: matassa, etc.
La N presenta anche la doppia fonetica per cui si ha: Nina: Nina o Antonina, nappa: ciotola, tazzone, etc. Si raddoppia nelle parole: nnachiti: scuotiti, nnannarinu: che balla sempre, nniavulatu: indiavolato, dove si nota la scomparsa della D per addolcire la parola; nnimicu: nemico, nnuccenti: innocente, nnurvari, annurvari: accecare, etc.
La P presenta alterazioni fonetiche con raddoppio iniziale: pp’amuri ro Signuri: per l’amor di Dio, pparigghiari, apparighiari: accoppiare, pareggiare, ppi scanciu: invece, in cambio, ppuntiddhatu, appuntiddhatu, etc.
La lettera R suona in modo sussurrato mentre la D può avere un suono percussivo. Nella lingua modicana la R molto spesso sostituisce la D. Noi diciamo: rhama: ramo; rhui = due, rhumani = domani, rhavanti = davanti, rhiri = dire, rharrieri = dietro, ravanti = davanti, rhiavulu = diavolo, rhiaulicciu = diavoletto, rhinari = danari, rhienti = denti, rhintera = dentiera, rhiscurriri = discorrere, rhiscursu = discorso, rhisiari = desiderare, risiatu = desiderato, risìu = desiderio, rhisiusu = desideroso, rhispiàciri (verbo) = dispiacere, rhispiacìri = dispiacere, rhispirarisi = disperarsi, rhispirazioni = disperazione, rhisprizzari = disprezzare, rhissanguari = dissanguare, rhistinari = destinare, rhistinu = destino, rhisupra = disopra, rhisutta = disotto, rittu = dritto, rhotmiri = dormire, rhugna = rogna, rhurari = durare, rhurata = durata, rhurauru = duraturo, rhuru = duro, rhuruliddhu = duretto, rhurici = dodici, rhucientu = duecento, rhumila = duemila, runni = da dove, rhurizza = durezza, rhurmienti = dormiente, rhormiri = dormire. In questi casi, per distinguerla dalla R dura, ho ritenuto di scriverla Rh mentre la R dura viene raddoppiata come nell’aggettivo rruffianu, rrummuliuari: brontolare, rricuogghiti, arricgogghiti: torna a casa, etc.
La lettera S presenta i due suoni, il dolce e il duro con raddoppio iniziale. salami: salame, sausizza, sasizza: salciccia, suonnu: sonno, etc. Si raddoppia nelle parole: ssaccuni, assaccuni: assestamento, ssicutari, assicutari: inseguire, ssimigghiari, assimigghiari: somigliare, ssintumari, assintumari: svenire, ssuppari, assuppari: inzuppare, etc.
Anche la T presenta le due intensità fonetiche con il raddoppio della consonante iniziale, per l’elisione della A.
Normalmente nelle parole: tagghiari: tagliare, taula: tavola, tirari: tirare, torta: torta, tunnu: tonno, etc. Si raddoppia per l’elisione della A nelle parole: ttanagghiari, attanagghiari: attanagliare, ttintuni, a ttintuni: a tentoni, ttisari, attisari: raddrizzarsi, guarire, ttutniari, atturniari: arrotondare, etc.
Le parole contenenti TR presentano una fonetica diversa con la R che non vibra ma si addolcisce come nelle parole: trhabballari, traballare, tracolla: tracolla, trafila: trafila, trhasiri: entrare, trhavagghiari: lavorare, trhippari: giocare, troia: scrofa, trhumma: tromba, etc.
La V non presenta diversità fonetiche.
La Z si presenta dura, con raddoppio iniziale, e anche sorda. Si ha quella dura nelle parole zzammara: Sisal, zzabbajuni: zabaione, zzanniari: vagabondare, zzaurdu: bifolco, etc.
Per addolcirla si associa una H come nella parole: zzhappa: zappa, zzhàzzira: zazzera, zzhiu: zio, zzhoppa: zoppa etc.
Le scelte fonetiche nella lingua parlata modicana sono dovute, quindi, al culto del sottovoce e del silenzio. Esistono suoni sussurrati e suoni percussivi, ma per la certezza fonetica per i non modicani è necessario un esempio di dizione registrata per iniziare un modo nuovo di comunicazione più obbediente.
Abel
Sul letto di morte mio padre Nara (Uomo) il Grande, si congedò da me dicendomi:
“Figlio mio, ti lascio un grande regno che si estende dal mare alla gola di Patatrin (Uccello). Tu sei un magnifico guerriero, ma non essere ingordo. Non sacrificare il tuo popolo per fare altre conquiste. Io l’ho fatto e mi pento di avere condotto guerre scellerate che hanno ridotto il mio esercito a numeri così esigui di armati da renderti difficile difendere il trono in caso di attacchi nemici. Ormai ti sono rimasti donne e bambini e gli uomini superstiti sono per lo più commercianti e contadini che non potresti schierare in battaglia. Ti lascio grandi ricchezze e potresti assoldare molti armati. Ma non ti fidare di mercenari. Chi rischia la vita per denaro la vende al maggiore offerente e non saprai mai, prima di essere tradito, se tu lo sei.
Cerca di conquistare il cuore delle donne perché ne avrai ricca prole e terre in dono dai loro padri. Ma stai attento. Temi l’ira del mite più d’ogni altra cosa, e le donne sono miti più d’ogni altro essere vivente.
Onora gli dei, i tuoi ed anche quelli degli altri, perché nel nome dei loro dei gli uomini si scannano senza motivo alcuno.
E’ giunto il mio tempo. Accendi con le tue mani la mia pira. Trascendi le consuetudini e accetta la volontà delle mie mogli. Quelle che non sceglieranno spontaneamente di seguirmi nel rogo, rimandale ai parenti, più ricche di quando sono venute a nozze con me. Congeda i loro figli, tuoi fratellastri, perché essi possano tornare ai loro regni e tu abbia il diritto di godere della loro amicizia, senza invidia alcuna.
Butta le mie ceneri nel mare perché nessuno possa venerare di me altro che il ricordo delle mie parole. Spero che quelle rimaste nella memoria sembrino sagge e che tu voglia conservarle come la sola vera mia eredità”.
Questo mi disse mio padre morendo e penso che ci credesse davvero. Io sicuramente le reputai ispirate e divenni un grande amatore.
Allora ero giovane e non mi mancavano le forze fisiche per dedicarmi con fervore agli impegni presi. Ad essere proprio obiettivi, senza vanto alcuno, devo dire che conquistavo il favore delle donne, ma solo di quelle delle quali ero innamorato e non smettevo di onorarle neanche quando svaniva la grande passione.
Persino oltre ai confini del mio regno si sparse la voce del giovane mahārāja che sapeva appagare le donne, e la diceria giunse alle orecchie della figlia del mio più potente nemico.
Oltre la gola di Patatrin, sorge il regno di Bala (Forza o, precisamente, Cornacchia). Un regno sterminato il cui solo confine conosciuto era quello con il mio, protetto dall’invalicabile catena montuosa di Acalaucca (Montealto) il cui unico varco possibile per oltrepassarla era il passo di Patatrin, inaccessibile per neve e ghiaccio almeno sei mesi l’anno.
Mio padre aveva fatto guerra a tutti i vicini, conquistandone i territori, ma non aveva mai pensato di levare le armi contro Bala. Eppure odiava con tutte le sue forze quel maledetto strozzino che gli dissanguava le casse del regno per cedergli gli alberi e il legno per costruire le navi con le quali manteneva il controllo del mare e le sue ricchezze. Quel vilissimo re se n’approfittava di avere solo lui legno adatto a far navi robuste per i commerci e le guerre, e sfruttava proditoriamente un bene che non poteva possedere, le foreste, per prosperare a dispetto degli uomini e degli dei.
Ma quella brutta cornacchia di Bala il Malvagio una cosa aveva fatto in tutta la sua vita di una bellezza e di una bontà così straordinarie che, per lei, gli veniva perdonato quasi tutto: sua figlia Prabhā (Luce).
Non che Bala non avesse altri figli e l’erede al trono designato. Il fatto è che, senza l’intercessione di Prabhā, sarebbe stato inviso ad uomini e dei, e senza i suoi consigli avrebbe brancolato nel buio.
Giunto il tempo che Prabhā prendesse marito, tutti si sentirono imbarazzati dalla scelta, perché nemmeno fra i suoi fratelli era possibile trovare un uomo che fosse degno di lei.
Fu allora che alla principessa giunse la mia nomea e si impuntò a conoscermi.
La cosa apparve subito inaccettabile. Non solo era escluso che la principessa si accasasse con un principe che non fosse figlio di un re vassallo del padre Bala, ma che addirittura volesse conoscere il suo peggior nemico era pura follia. Luce non poteva essere così cieca. Voler conoscere l’antagonista del padre mostrava il massimo dello spregio per ogni regola di buon senso.
Cosa sarebbe accaduto se, una volta invitato, il figlio di Nara il Grande avesse corteggiato Prabhā? Con la fama che lo precedeva non era difficile immaginare che Vardhana sarebbe stato preso dal fascino di una donna che faceva innamorare di sé financo i bambini.
Con la fama di cui godeva Prabhā, era impossibile immaginare che ella avrebbe rifiutato la corte di Vardhana? Una guerra per un simile affronto sarebbe stata l’unico atto prevedibile. E se, peggio ancora, Vardhana avesse chiesto la mano di Prabhā ed ella avesse accettato di sposarlo, quale sarebbe stata la giusta dote? Quali territori assegnargli? E non avrebbe forse chiesto, quell’ingordo marinaio, legno per le sue navi? E che fine avrebbe fatto Bala, privato della sua più importante fonte di reddito?
Prabhā dissolse ogni dubbio chiarendo che la visita del re confinante poteva restare un fatto personale, una cortesia fra loro due, un gesto di pace.
Non era indispensabile propalare ai quattro venti che Prabhā cercava marito. Il massimo che il regno ci avrebbe rimesso sarebbe stato alla fin fine un ricco carico di legname per barche, da donare al regnante nemico per lo scomodo del viaggio.
Abbattuta una piccola foresta e preparato il legno di tutto punto, si inviarono i messi al mahārāja.
Questo, naturalmente, lo seppi molto dopo. Per non sapere di tali maneggi, una mattina ebbi la sorpresa di trovarmi davanti due figuri vestiti stranamente, ma in pompa magna che, dopo gli inchini rituali, mi porsero un cartiglio profumato di colore rosso. In esso lessi:
“Nobilissimo Signore e Grande Mahārāja Padrone del mare, mi è giunta all’orecchio la tua fama e vorrei comprenderne il senso.
So che i rapporti fra i nostri genitori non sono stati dei migliori ma, ora che sei re, confido che la tua magnanimità superi ogni ostacolo e che tu voglia venire a trovare colei che è speranzosa di convincerti di come non possa esistere alcun motivo per il quale noi due dobbiamo considerarci nemici.
Se vorrai accettare il mio invito, mi troverai ad accoglierti con una scorta disarmata al varco di Patatrin.
Se ti vedrò giungere al passo di confine fra il tuo regno e quello di mio padre, capirò di avere la fortuna di incontrare l’uomo più coraggioso che potrei mai trovare ed il più ammirevole. Infatti, se dovessi vederti, saprei che non temi di essere fatto prigioniero, perché ti sei fidato della mia parola. Da nessuno ho mai ricevuto una simile considerazione ed un così grande onore.
Se ti dovessi vedere, saprò che hai sfidato la morte per la promessa di una donna.
Mi accamperò alle gole di Patatrin e ti aspetterò sin quando verrai, perché il cuore mi dice che tu verrai.
Al nostro incontro, quando potrò gioire contemplando la tua gloria!”.
Il biglietto era firmato:
“Prabhā, figlia di Bala il Possente, principessa del regno di Arjunacakanaka (Argentoeoro)”.
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Nara – sm. nara (gr. anēr) = uomo; maschio; persona; marito; eroe; primo uomo o spirito eterno che pervade l’universo.
Pdf – Nara il Grande, padre di Vardhana, è il fondatore del regno di Pūtamajala. Non conosciamo il nome della madre di Vardhana, né il motivo per il quale egli non avesse altri fratelli, ma solo fratellastri. Sul caso, ogni ipotesi è lecita.
Patatrin – sm. patatrin = uccello; cavallo nel sacrificio Ashvamedha; agg. alato; pennuto; volante.
Nf – Le gole di Patatrin sono l’unico valico nella catena montuosa di Acalaucca che collega i regni di Arjunacakanaka e Pūtamajala.
Bala – Come sn. (si converrà che il neutro è inadatto ad un maschio, per di più re) bala = potere; forza; potenza; vigore; validità. Come sm. bala = cornacchia. Bala è anche il nome di un demone vinto da Indra, il re vedico degli dei Deva.
Pdf – Bala, mahārāja del regno di Arjunacakanaka, è padre di Prabhā e di Vijaya che gli succede al trono.
Acalaucca – (Acala-ucca). Parola composta da: sm. acala = montagna + agg. ucca = alto. Significato, Montagna alta.
Nf – Nome della catena di monti che segna il confine fra i regni di Arjunacakanaka e Pūtamajala.
Prabhā – sf. prabhā = luce; splendore; bella apparenza.
Pdf – Prabhā è la figlia di Bala, mahārāja di Arjunacakanaka. Per le sue doti eccezionali, benché fosse una principessa, si era già guadagnato l’appellativo di Regina (Rājnī di Arjunacakanaka). Prabhā è la madre di Shabda.
Arjunacakanaka – (Arjuna-ca-kanaka). Parola composta da sn. arjuna = argento + ca = e congiunzione (gr. kaí); sia; anche; inoltre; (come agg. = puro) + sn. kanaka = oro. Significato, Argento e oro, oppure Argento puro oro.
Nf – Nome del regno di Bala, passato a Vijaya e poi a Shipi.
Gli dei ascoltavano Vardhana con grande attenzione e dalla selva non giungeva alcun rumore sicché egli s’immaginò che quello spiazzo erboso fosse un cerchio magico dentro al quale loro tre rimanevano sospesi nel tempo, isolati dal mondo. Continuò così la sua storia.
La lettera mi mise in grande confusione. Se la principessa avesse voluto tendermi una trappola, aveva trovato tutti gli argomenti giusti per farmici cadere. Del resto nessun maschio, nemmeno un mahāmuni (grande saggio), era capace di sottigliezze d’argomenti pari a quelle di una donna qualsiasi. La missiva rivelava che Prabhā non era una donna qualunque, ma una persona degna della sua fulgida fama.
Per più di una settimana la mia mente sfogliò la margherita del dubbio. Andare o non andare? L’ultimo petalo del fiore mi disse di andare ed io volli obbedirgli.
Formai una scorta di centocinquanta guerrieri, dei migliori fra i miei amici personali, perché con una donna la prudenza non è mai troppa. Nominai nel frattempo viceré il più saggio dei miei fratellastri. In caso di disgrazia, l’esercito avrebbe perso solo centocinquanta uomini, sia pure i più valorosi, ma si sarebbe salvato il regno anche dopo la mia morte.
Partiti di buon mattino, la sera ci fermammo a metà strada e, durante la notte dell’accampamento, fui ancora colto dal dubbio. Ma, se fossi tornato indietro, che figura avrei fatto con i miei uomini che avevo tanto faticosamente convinto a condividere con me un gesto d’inaudito coraggio?
Disfatto da una notte insonne, ripresi il cammino e a sera giungemmo in vista delle gole.
Ci accampammo una seconda notte che la stanchezza mi riempì di incubi, sino a quando non entrò nella mia tenda Kavaca (Corazza), il più fedele e caro dei miei guerrieri, pur essendo nato a Tarkso da cui molti dicevano che non poteva venire nulla di buono.
Con voce pacata, la faccia austera al lume rossastro delle torce, egli così mi disse:
“Mio re, da molti giorni vedo che è scomparsa in te ogni forma di allegria. Passi le notti insonne ad immaginare ogni aspetto possibile di un futuro che non ti è dato conoscere. Tu sei turbato dal pericolo di un inganno, non dall’inganno stesso, perché esso non è ancora avvenuto.
Tu sei capace di combattere impavido il male che ti colpisce, ma sembri incapace di resistere alla paura che il male possa colpirti. Questo non è da re. Un re sa che qualunque male può essere prevenuto e spende il suo regale potere per allontanarlo.
Tu, adesso, di cosa hai paura? Che la principessa t’inganni e ti faccia prigioniero.
Ora, per metterti in catene deve avere armati che sconfiggano le tue guardie, perché nemmeno la principessa, sia pur cosciente del potere della sua seduzione, può immaginare che un re si sposti senza scorta.
La tua seduttrice, per costringerti alla sua mercé, deve aver preso ogni precauzione ed avrà predisposto una truppa assai numerosa. Questa sarà alloggiata al di là del passo in un accampamento visibile per le sue luci.
Allora, manda le tue guide a vedere quanti sono i tuoi potenziali nemici e come sono armati. Questo è possibile con il favore delle tenebre. Quando ritorneranno e ti riferiranno quello che hanno visto, allora saprai con certezza e potrai giudicare se esiste davvero la trappola che ora così vanamente temi”.
Quando Kavaca smise di parlare, mi pentii di non averlo ancora fatto generale di corpo d’armata.
Inviai le mie spie in perlustrazione ed attesi ansiosamente il loro ritorno.
Alle prime luci dell’alba esse mi riferirono lietamente di aver visto un grande campo illuminato a festa, con gente che cantava e ballava, eccitata solo dalla concitazione del canto e del ballo.
Non avevano registrato ombra di armati e, se ce ne fossero stati, non erano nell’attendamento, ma acquattati senza fuochi sulle rocce della gola a pernottare al freddo, condizione da escludere persino se i militari fossero stati mercenari.
Rassicurato da queste notizie, levammo il campo e al terzo giorno, sotto la luce del Sole più smagliante, valicammo il passo.
A questo punto Pārvatī interruppe il racconto e, con un misterioso sorriso sulla bocca, chiese a Vardhana di descrivergli per filo e per segno come era fatta questa gola che unica interrompeva la catena dei monti Acalaucca, confine naturale invalicabile, posta a frontiera di due regni umani.
Vardhana fu talmente sorpreso dalla domanda e dal momento in cui essa gli veniva posta, che non seppe trattenersi dall’osservare come, da sempre, si sapesse che la catena e la gola esistevano per volontà ed intervento diretto dell’Asse del mondo Himavat, padre di Pārvatī e che lui, delle cose di casa sua, ne sapeva quindi meno della dea.
Allora quella, smesso ogni sorriso, con voce terribile gli ricordò che lui, povero mahārāja, non poteva presumere di sapere le cose divine e che i motivi di Pārvatī erano le ragioni di un dio e che la facesse finita e descrivesse il passo che, soltanto dopo la sua morte di fragile umano, si sarebbe rivelato di grande importanza.
Che si arrendesse dunque alla divinità ed obbedisse al suo volere!
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mahāmuni – Parola composta da agg. maha = grande; forte; abbondante (gr. mégas) + sm. muni = impulso; impazienza; saggio; asceta; eremita; Brāhmana [uomo appartenente alla prima delle tre classi dei due volte nati] del più alto grado.
Kavaca – sm. o sn. = armatura; corazza; cotta; corteccia; scorza; sm. = tamburo di guerra.
Pdf – Kavaca, soldato fedelissimo di Vardhana. Nonostante fosse nato a Tarkso, è promosso generale di corpo d’armata dal mahārāja di Pūtamajala.
Tarkso – nome ottenuto dalla somma delle due radici verbali tark + so. Tark (verbo tarkajati) = congetturare; indovinare; sospettare; accertare; riflettere; intendere. So (verbo syati) = uccidere; finire.
Nf – Si è dato questo nome al paese da cui proveniva Kavaca, per assonanza con quello di Tarso dove era nato l’ebreo Paolo. Un lettore attento comprenderà le assonanze per tutti gli altri nomi usarti nella favola che rimandino ad altre favole.