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IL NOSTRO ADDIO A PEPPE DRAGO

Peppe Drago se n’è andato a 61 anni, stroncato da una malattia che non perdona, una di quelle malattie che vengono o comunque si aggravano per l’angoscia dell’anima. Peppe Drago era un uomo politico e lo sappiamo tutti che in politica non si va per il sottile, ci si avvantaggia della propria posizione, si fanno i propri interessi, ma ci sono alcuni uomini politici che si occupano solo di questi, altri che si curano anche dei cittadini. Questi ultimi in genere sono detestati da quelli che invece considerano i cittadini solo dei servi da usare. Peppe era stato accusato pesantemente, denigrato dai tanti avversari politici, ma poi assolto; questo vuol dire che così colpevole non era. Assolto dai giudici ma condannato dall’ingiustizia della vita, perché il reprobo passa indenne anche attraverso le condanne essendo privo della sensibilità necessaria a soffrirne pur di mantenere privilegi e ricchezza (e ci riesce sempre), chi invece si sente colpito ingiustamente riceve una ferita che lo lacera e lo uccide.

Noi non sappiamo se e fino a che punto si sia approfittato della sua posizione politica, ma siamo convinti che l’abbia fatto meno di altri e così è morto. Non ci vogliamo unire al coro di chi piange lacrime di coccodrillo oggi dopo averlo denigrato in tutti i modi fino a ieri. Noi vogliamo solo salutare l’amico, quell’amico col quale festeggiare allegramente la fine dell’anno o scontrarsi accanitamente per difendere ognuno la propria convinzione politica, un altro amico che siamo costretti a salutare.

Ciao, Peppe, quanta nostalgia!

Luisa Montù




La Modica di Enzo Belluardo




‘N PUZZUDDU A MODICA ALTA

npuzzuddu4Il 10 settembre Piazza Santa Teresa ha visto svolgersi proprio davanti alla sua chiesa, una bella e allegra serata ‘N puzzuddu a Modica Alta.

La manifestazione è stata molto gradita, perché all’insegna delle nostre antiche tradizioni e della bella musica dialettale che ha accompagnato tutta la serata con canzoni nostrane eseguite dal gruppo modicano MuòriKa Mia, che ha deliziato per ben due ore e mezzo con strumenti e voce i numerosi intervenuti.

Ha presentato la poetessa modicana Enza Giurdanella. Che. oltre a fare da voce narrante, ha anche recitato alcune sue splendide poesie dialettali, evocando nei suoi versi le nostre antiche tradizioni e i nostri valori modicani.

Piero Pisana, col suo allegro e semplice cabaret, ha coinvolto con sottile ironia tutto il pubblico presente, rispolverando anch’egli un misto di ricordi, emozioni e sensazioni legati al nostro passato.

Il tutto accompagnato da ‘n puzzuddu.

Piazza Santa Teresa infatti, si è mostrata sempre più stracolma di turisti e cittadini modicani e dei vicini paesi che hanno gradito il piatto che, oltre allo splendido spettacolo, veniva loro offerto con un esiguo contributo ‘n puzzuddu di bollito, olive caserecce, uova, vino, pane di casa, che, data l’inaspettata massiccia presenza di pubblico, alla fine non è bastato per tutti i presenti ma ha così attivato ancora di più il lavoro dei vicini esercenti, alcuni dei quali sono stati anche sponsor ufficiali della serata.

La manifestazione è stata organizzata dalla Società Operaia Carlo Papa, di cui è presidente Giorgio Casa, con il patrocinio del Comune di Modica. Presenti (come al solito accade in queste occasioni ) il vicesindaco Giorgio Linguanti e Giorgio Casa, che, vista la riuscita dell’evento, si è ripromesso di continuare a fungere da faro sul territorio per mettere in risalto sempre di più il quartiericcio più antico del nostro paese e, ringraziando tutti alla fine della serata, lo ha ribadito al pubblico, che non si è mosso dalla piazza fino alla fine dello spettacolo, dichiarando: “Un grazie particolare a tutto il gruppo di lavoro che ha sposato la manifestazione sin dal suo nascere, contribuendo alla indubbia riuscita in modo entusiasticamente fattivo; senza il prezioso apporto di ciascun componente non avremmo potuto conseguire questi risultati; un grazie speciale al Consiglio di Amministrazione e alla Carlo Papa nel suo complesso, che continua, oggi più di ieri e meno di domani, a fungere da faro sul territorio! Ma il grazie che mi piace sottolineare è quello rivolto ai tanti, veramente tanti, intervenuti che con la loro presenza hanno determinato la riuscita dell’evento. E non finisce qui … “

Sofia Ruta

 




ROMA CAPOCCIA DER MONNO INFAME

Passano gli anni, ma quel che cantava un giovanissimo Venditti è sempre più attuale.

Per chi ci è nato, o per chi ha scelto di viverci, Roma è una città di struggente bellezza che non è possibile non amare fino alla follia, ma è anche una città straordinariamente vecchia (non solo antica!) e stanca di vivere, piena di miserie materiali e, ancor più, morali che la rendono oggetto di disprezzo e di odio da parte dei suoi figli.

Ma è la Città Eterna, e non può morire. Roma trascina da secoli questa condanna che non le permette di finire i suoi giorni in polverosa mitica gloria, come Ninive o Babilonia, e l’amara immagine felliniana di Roma incarnata dall’anziana meretrice stanca, ma fiera ed altera nel portamento regale di chi conosce l’onere e l’onore del ruolo svolto nella storia dell’umanità, la descrive alla perfezione.

Una ventina di anni fa, mentre a Milano la Procura della Repubblica cominciava a scoperchiare il paiolo della corruzione politica con un’operazione, detta “Mani Pulite”, che travolse e fece scomparire interi partiti, il Senatùr leghista Bossi tuonava contro “Roma ladrona”. Inutile sottolineare che oltre ai grandi partiti, DC e PSI in testa, anche la Lega fu pescata con le mani nel sacco.

Da un paio d’anni a questa parte sulla città immortale è tornato a soffiare impetuoso il vento giudiziario, ed è nata “Mafia Capitale”: Roma si è trovata più ladrona che mai.

Non è una novità che in tutte le capitali, dove insistono i palazzi del potere, alligni e trovi fertilissimo terreno la corruzione, la concussione, il ricatto, il voto di scambio e quant’altro, talvolta fino all’eliminazione fisica di personaggi “scomodi” per il loro operato d’intralcio ai maneggi disonesti.

Londra, Parigi, Washington, Mosca sono al centro di interessi economici e politici di levatura planetaria: le azioni spregiudicate delle cosiddette intelligences si intrecciano con quelle criminali di ogni sorta di mafia. Per non parlare degli scandali a sfondo sessuale che hanno coinvolto Presidenti, politici di rango e potenti intoccabili: Clinton, Hollande, Strauss-Kahn si leccano ancora le ferite.

E Roma, fin dall’antichità è stata maestra di malaffare, dalle Idi di marzo fatali a Cesare ai tanti imperatori eliminati da congiure di palazzo, dalle imprese dei Borgia al crack della Banca Romana. Ma Roma è stata grande, imperiale, Caput Mundi, nonostante tutto.

Ai giorni nostri la troviamo terra di conquista per affaristi di mezza tacca, per bande di rom e di criminali comuni, per Ndrangheta, Mafia e Camorra, sotto l’ala dei Servizi deviati e con l’ombra della Massoneria alla Licio Gelli a tirare le fila. Anche il Vaticano paga pegno allo scandalo: Marcinkus e lo IOR, la protezione dei preti pedofili, l’inchiesta Vatileaks …

In mezzo a questo caos, mentre la città si sgretola fisicamente e moralmente, dalle buche nelle strade ai quartieri in mano a spacciatori di tutte le razze, i politici non pensano ad altro che alle loro beghe interne, divisi in fazioni, correnti e sottocorrenti, e non si accorgono di vivere una realtà che dista anni-luce da quel popolo disgustato che nemmeno li vota più, e che li porterà a precipitare in fondo al baratro, magari di una discarica abusiva.

Adesso una giovane donna, scelta dalla maggioranza dei romani ancora votanti per il suo programma di scardinare il sistema delle tangenti, degli appalti truccati, dei favoritismi e dei nepotismi, lotta ogni giorno dal suo posto di sindaco contro una precisa volontà di non farla governare a suon di avvisi di garanzia a suoi assessori, di rinvii a giudizio che la magistratura non conferma, di illazioni, presunzioni, voci, fino alla calunnia. Se i romani hanno scelto la pentastellata Raggi come prima cittadina, costei ha il diritto-dovere di governare la città. Se ne sarà capace o no lo vedremo a consuntivo, ma intanto deve poter portare avanti la sua scomodissima e pesantissima missione.

Il suo predecessore Ignazio Marino, che aveva cominciato a tagliare privilegi e prebende e che si era schierato nettamente contro i traffici di Mafia Capitale, è stato scaricato dal Partito Democratico romano con modalità scandalosamente subdole: non sapremo mai se Marino sarebbe stato un buon sindaco, non gli hanno permesso di cimentarsi a fondo coi problemi della città. Il PD, quando vince le elezioni sembra fare di tutto per farsi del male e screditarsi agli occhi degli elettori, ricco com’è anche lui di mele marce; invece di pensare al bene comune disperde le sue forze in lotte intestine che poco interessano il popolo che ha problemi di reale sopravvivenza quotidiana.

Si disquisisce sulla nuova legge elettorale, che sembra diventata la classica coperta troppo corta tirata da tutte le parti, mentre ancora si attende il parere su di essa della Corte Costituzionale e senza sapere se il Senato sopravviverà o no all’ormai mitico referendum del quale non è stata ancora fissata la data! Si buttano centinaia di migliaia di euro – i nostri! – per insulse quando non offensive e razziste campagne pubblicitarie per un Fertility day che affronta il tema della denatalità in maniera idiota, come se gli italiani fossero tutti frigidi, impotenti, egoisti. Date casa, buone scuole, sanità efficiente e lavoro sicuro e vedrete quanti italiani spingeranno felici carrozzine e cambieranno montagne di pannolini sorridendo!

Virginia Raggi ha seri problemi oltre che con l’opposizione anche col movimento che l’ha espressa. Curiosamente, anche i grillini appena vincono una poltrona da sindaco fanno di tutto per cacciarlo dal Movimento: l’inesperienza e lo zelo del neofita arma la mano degli intransigenti twittatori, che non ammettono che un sindaco, visto che è il primo cittadino e rappresenta tutti, anche chi non lo ha votato, è tenuto a mediare tra le parti e ad accettare qualche compromesso. La moda del momento, poi, esige che appena viene occupato un posto di potere – non solo la poltrona, basta uno strapuntino!- arriva l’avviso di garanzia. Che sia atto dovuto o preliminare di un rinvio a giudizio, il magistrato non lo nega a nessuno, tanto coi tempi lumacheschi della (in)giustizia italica, anche se il reato c’è stato, la prescrizione è sicura. Continuiamo a giocare!

L’aveva detto in campagna elettorale, e l’ha fatto: le Olimpiadi a Roma nel 2024 non si faranno. A tutti gli italiani sarebbe piaciuto di certo essere in grado di organizzare e gestire un evento mondiale così importante, ma di fronte alle difficoltà economiche in cui versa il Paese e al pericolo di incrementare ancor più il malaffare e lo sfruttamento del territorio, giustamente Roma rinuncia a candidarsi. I romani, scegliendo la Raggi, hanno chiaramente espresso il loro pensiero circa l’organizzazione di grandi eventi nella capitale: tra manifestazioni e cortei, visite di capi di stato, giubilei e santificazioni, col pericolo incombente dell’attacco terrorista, a Roma non si campa più, e i romani sono stufi.

Malagò e Montezemolo sono furiosi, anche perché hanno speso un pozzo di soldi per presentare un programma organizzativo dell’evento, e vogliono chiedere i danni al Comune di Roma! Dicono che Roma ha fatto una pessima figura in campo internazionale facendo credere di essere incapace di fermare la corruzione: ma non sarebbe peggiore la figuraccia se a farcela fare fosse il Comitato Olimpico Internazionale, bocciando la nostra candidatura proprio perché l’Italia si è fatta la fama di paese corrotto e mafioso?

Sarà modesto e mediocre, ma lo scopo della Raggi è quello di gestire al meglio gli affari ordinari, di riparare i danni delle passate gestioni, di portare a termine opere pubbliche che si trascinano da anni, di riordinare la macchina amministrativa e di sveltire le procedure: insomma, come ogni madre di famiglia sa e fa, bisogna quotidianamente affrontare il ménage, e tirare avanti. Sarà dura per lei la strada, tutta in salita: fotografata sul balcone di casa in pigiama e ciabatte mentre stende i panni, è stata ammirata e osannata per la sua semplicità e vicinanza al vissuto dei concittadini ma, a distanza di poco tempo, criticata per la sciatteria e per l’immagine troppo cheap per un primo cittadino…

Auguri, sindaco Raggi. Hai voluto la bicicletta, ora pedala! Magari cambia bici, prendi una mountain bike robusta, che i sette colli sono pieni di fossi, fango e monnezza. Forse ce la farai: in fondo Mamma Roma, Roma capoccia, visto che è eterna dovrà trovare anche stavolta come sopravvivere.

Lavinia de Naro Papa

foto tratta dal film di Federico Fellini “Roma”




Niente è più duraturo del provvisorio…




ALBERI, SUOLO E SOTTOSUOLO: MISTERI E DOGMI

Dopo il 1950 si sono iniziate le sistemazioni collinari in molte regioni della Sicilia e sono state introdotte delle essenze boschive nuove ed esotiche.

Le scelte fatte sono un mistero, un atto materiale di cattiveria o meglio un modo silenzioso per cancellare la presenza delle nostre piante della Macchia mediterranea e cambiare volto alle nostre campagne. La motivazione tecnica era legata al rapido accrescimento e resistenza alla siccità. Sono nati i vivai della Forestale e il costo delle piantine era irrisorio. Il verde pubblico era rappresentato solo dalle palme canariensi come scelta di cristianità. Nelle ville patrizie invece erano presenti essenze rare e associazioni botaniche scelte con gusto.

Le scuole di avviamento professionale ebbero un ruolo importante nel valorizzare e promuovere il verde pubblico con la Festa dell’albero e si iniziò la piantumazione di piante forestali: pino d’Aleppo, pino da pinoli, eucaliptus, acacie, tuie, cipressi arizonici, cipressi piramidali e cipressi conici. In seguito apparvero i carrubi e qualche pianta della Macchia mediterranea, come le querce, i ginepri e il lentisco, con destinazione mirata.

Le piante forestali cominciarono a creare il verde pubblico, un verde senza pretese, facile, veloce e quasi a costo zero. Si pensò poi di abbellire il Corso Umberto con piante diverse, ma subito se ne decise l’estirpazione, tranne in alcuni punti come il marciapiede del lato Est e su Viale Medaglie d’Oro.

Le superfici collinari rivestite dalle piante forestali poggianti su pochi centimetri di terra cominciarono a presentare vari problemi, col ribaltarsi di alcune piante sulle strade e creare pericolo. Fu ordinato l’abbattimento su una fascia, ma si attuò un progetto di fare bottino di legna da ardere, tagliando gli alberi alla base, senza lasciare un moncone capace di creare una barriera frenante per gli alberi a monte, in caso di caduta.

Questo è il primo segnale di irrazionale manutenzione delle aree rimboschite.

Oggi si presenta l’ultimo atto di cattiveria verso gli alberi di pino di Via Silla, con la motivazione che questi creano pericolo e danneggiamenti ai marciapiedi e alla sede stradale. Ma il fatto più strano è che sono stati eliminati anche gli alberi insistenti sulle aiuole delle Case Popolari, che non manifestavano danni alle strutture pubbliche.

Da una documentazione fotografica si evince che la sede stradale non presenta alcuna alterazione planimetrica. Per quanto concerne i marciapiedi si nota un sollevamento di pochi centimetri in corrispondenza del colletto stretto lasciato attorno alla base del tronco. La motivazione, quindi, non poggia su un motivo concreto, ma fa sospettare, per le passate esperienze, con una promessa di sostituzione delle piante con altre meno invadenti, una macchinazione a beneficio di qualcuno.

Un altro atto di cattiveria e d’insensato criterio di potatura si è manifestato in occasione delle invasioni notturne di passeri sulle piante di ficus.

Si è proceduto a una grossolana capitozzatura, che niente aveva a che vedere con una sagomatura ornamentale, manifestando un cattivo esempio di manutenzione del verde decorativo pubblico.

Questa la breve premessa.

Questi avvenimenti sono causati da mancata conoscenza della biologia vegetale e delle caratteristiche delle varie specie di piante. La grossolanità culturale del cittadino, non educato alla cura del bello e del buono, si è cronicizzata. Ormai domina il culto della guerra, esteso a ogni azione umana, per cui è prevista solo la morte del nemico e non una ricerca di convivenza. Questo comportamento ostile si manifesta, purtroppo anche con una microcattiveria familiare diffusa.

Ormai viviamo in un mondo insensibile, indifferente, poco colto e ricco di tutte le forme di cattiveria.

L’argomento da trattare era: alberi, suolo e sottosuolo, tre illustri sconosciuti a molti cittadini.

Gli alberi, assieme a tutti i vegetali, sono esseri viventi a cui dovremmo dire grazie, perché, senza di essi, la vita non sarebbe stata possibile su questo pianeta. Come tutti gli esseri viventi necessitano di uno spazio vitale da rispettare. Il sistema nutritivo differisce dagli altri esseri per il semplice fatto determinato dalla loro immobilità. Lo spazio vitale principale è determinato dal volume di suolo capace di fornire acqua e minerali per creare, assieme all’anidride carbonica, presa dall’aria, i composti quaternari che formano il loro corpo e quello di tutti gli esseri viventi. Questi stanno alla base della lunga catena alimentare presente su questa terra.

I consumi di acqua sono notevoli specialmente nei climi caldi. Un albero, di medie dimensioni, in estate deve disporre da cento a duecento litri d’acqua al giorno e questa deve essere reperita nel suolo in cui le radici si sono diffuse. La dimensione radicale dipende dalla morfologia del suolo e del sottosuolo. Nel nostro caso – terreni dell’altipiano modicano – il suolo, dello spessore di poche diecine di centimetri di profondità, poggia su una crosta calcarea impenetrabile. Questa condizione porta le radici di qualsiasi pianta a percorrere lunghissimi itinerari in superficie, fino a completare le strutture assimilanti necessarie alla sua esistenza. I volumi del nostro terreno si estendono in superficie e non in profondità.

Le piante a radice chiamata fittonante, possono veder rispettate le loro caratteristiche solo nei terreni alluvionali con struttura omogenea fino a sufficiente profondità, ma nei suoli giacenti su roccia affiorante, sono costrette a serpeggiare in superficie fino ad affiorare e scomparire nella ricerca di nutrienti.

La non conoscenza della consistenza del suolo e del sottosuolo crea le condizioni di affioramento delle radici con i problemi creati alle strutture murarie cittadine.

Per un impianto di alberi di alto fusto, cioè che possono superare i dieci metri di altezza, bisogna creare una zolla di terra di almeno otto metri cubi per pianta e questo con lo scavo della roccia e il riempimento in terra.

L’albero sarà sempre carcerato, ma darà meno problemi.

A ciò si aggiunge la mancata fornitura dei nutrienti, acqua, sostanze minerali e sostanza organica, cioè il letame. La sostanza organica attiva ha la funzione di riequilibrare gli ecosistemi terricoli, che in natura si attuano con la caduta delle foglie. Ma l’uomo di città ignora la funzione delle foglie, carcerando le piante sotto i marciapiedi. Le foglie, naturalmente, cadono per dare ai conviventi radicali un alimento alternativo, per lasciare in pace le loro radici. E’ un modo di convivere con i parassiti e i simbionti. Le piante quindi vivono in uno stato di miseria. Rubare per uno stato di necessità, non è reato, ma alle piante non è perdonato niente. Fanno eccezione i pupilli dei vivaisti, nobilitati e venduti a caro prezzo.

Sarei lieto conoscere le piante, con radici educate, consigliate per il reimpianto, come pure le opere di risanamento della zolla di terra che le ospiterà, nella certezza della presenza di radici di piante resinose come i pini, in disfacimento.

Le piante di pino di Via Silla in cinquanta anni di vita hanno determinato solo il sollevamento dei marciapiedi di pochi centimetri, mentre non si notano escrescenze sul manto stradale, come è constatabile dalle foto allegate. Non si spiega quindi la drastica e misteriosa soluzione, se non con un atto di cattiveria connaturato nel costume del cittadino di una città desertificata.

Abel

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Le ricette della Strega (a cura di Adele Susino)

Polpettone farcito

Ingredienti:

800 gr di carne macinata magra, 1 uovo intero, 50 gr di mortadella, 50gr di Emmental a fette, 2 uova sode, 1/2 tazza di ketchup, 1 cucchiaio di rosmarino tritato finissimo, 1 bicchiere di vino bianco, 1/2 cucchiaino di peperoncino, 1 tazza di maionese al pomodoro aromatizzata all’ aceto balsamico, q.b. di pan grattato, sale e olio evo

Preparazione:

In una terrina impastare la carne con il sale, il rosmarino, l’uovo e il pangrattato, aggiungere il peperoncino e trasferire il composto su un foglio di carta da forno, appiattirlo dandogli una forma rettangolare e farcirlo con le fette  di mortadella, il formaggio e le uova sode tritate. Aiutandosi con la carta forno formare un rotolo compatto, arrotolarlo nella carta e metterlo in una teglia, infornare a 200 gradi per 15 minuti, a questo punto togliere la carta, condire con il ketchup e irrorare con il vino, rimettere in forno a completare la cottura. Preparare la maionese di pomodoro frullando, con il frullatore ad immersione, 3 pomodori cuore di bue,1/2 cucchiaio di senape, olio evo (circa un bicchiere da vino), qualche goccia di succo di limone e un cucchiaio di aceto balsamico. Servire il polpettone freddo tagliato a fette e condito con la maionese di pomodoro.

In alternativa si può servire caldo irrorato con il fondo di cottura magari accompagnato da patate al forno.




IL LORO POSTO ALLE COSE

La triste storia di Tiziana, la giovane che si è suicidata dopo che sulla rete qualcuno aveva diffuso un suo filmino hot, ha scatenato polemiche, tavole rotonde, interventi di psicologi più showmen che psicologi in un’accusa a oltranza nei confronti della rete. Si è chiesto di proteggere i cittadini dalla rete. Ma insomma, che cos’è questa rete? E’ forse un paese nemico che ci ha dichiarato guerra? O piuttosto un mostro venuto dallo spazio per fagocitare l’umanità? Dalle chiacchiere che abbiamo ascoltato e letto sui media sembrerebbe trattarsi di una specie di Frankenstein costruito dall’uomo ma talmente perfetto che, nella sua perfezione, ha assunto il dominio sull’uomo stesso (concetto espresso dallo psicologo-scrittore-showman Crepet in una trasmissione del 17 settembre). Ma per favore! Tanto per cominciare, dove sarebbe questa supposta “perfezione” se di anno in anno (a essere ottimisti!) tutti i prodotti della tecnologia vengono aggiornati e sostituiti perché quelli precedenti diventano obsoleti? E’ proprio questo il campo in cui l’evoluzione è più veloce e incide in maniera progressiva e costante e questa è l’antitesi del concetto di perfezione che nega la possibilità di un qualsiasi tipo di modifica.

Umanizzare un oggetto è quanto di più disumano si possa fare, a meno che non si stia scrivendo un libro di fantascienza dove tutte le ipotesi sono possibili. Noi però viviamo nella realtà e questa realtà è assolutamente umana. Chi umanizza gli animali (che, per fortuna loro, uomini non sono) viene preso in giro, di contro invece chi lo fa con le cose è ascoltato e seguito, specie se lo pontifica dal teleschermo al popolo coglione della tv. Nessuno si offenda: di questo popolo coglione facciamo parte tutti indistintamente. Magari qualcuno ne è consapevole, altri no.

Ma torniamo al concetto dal quale siamo partiti. Si chiede alle autorità di proteggere il cittadino dalla rete, cioè da uno strumento inventato dall’uomo affinché eserciti determinate funzioni. Seguendo questo ragionamento si dovrebbe esigere dalle autorità di proteggerci dai coltelli, che, se infilati in un essere umano, lo possono uccidere, o anche dalle automobili, che mietono vittime ogni giorno. A usare i coltelli abbiamo imparato, anche se ogni tanto qualcuno che li utilizza in modo improprio salta fuori, ma in questi casi si parla di raptus di follia, a usare le automobili ancora non molto, ma dipende da noi. Ecco, dipende da noi. Siamo noi che non dobbiamo metterci al volante se siamo troppo stanchi e rischiamo di addormentarci o, peggio ancora, se abbiamo assunto alcolici, siamo noi che dobbiamo rispettare le regole della strada per non arrecare danno agli altri o a noi stessi, siamo noi che dobbiamo mantenere il mezzo in buone condizioni affinché non ci lasci in mezzo alla strada. Siamo noi. Noi, che dobbiamo imparare a usare tutto quanto noi stessi abbiamo inventato per agevolarci la vita. Le nostre menti invece sono piene di confusione perché vediamo le cose come dotate di vita propria, per questo abbiamo permesso che contassero più della vita reale, cioè la nostra. Dobbiamo restituire il loro posto alle cose e riprendere la nostra autonomia di esseri pensanti e senzienti. La sola protezione di cui abbiamo davvero bisogno è quella da noi stessi e temiamo che l’autorità che ce la possa fornire sia una sola: il nostro cervello.




L’ITALIA E IL SUO ENORME DEBITO 

Qui ci occupiamo dei conti sballati della pubblica spesa italiana degli ultimi sessant’anni.

Sono anni in cui assistiamo (dagli anni 60 in poi) alla parata di ministri pseudo-esperti di economia che si alternano al Ministero del Tesoro – annunciando con enfasi e pomposità  vari interventi, a nostro avviso, solo panaceici per sanare questo “vecchio guasto” al fine di allineare il rapporto Pil/Deficit ai Paesi più bilanciati in Europa.

E dire che c’è stato un tempo, non molto lontano, nel quale gli esperti affermavano che bisognava indebitarsi per

avere peso e ascolto  tra le élite della finanza. Allora analisti e banchieri di grido giravano il mondo invitando grandi e piccole imprese a come meglio indebitarsi.

Erano gli anni dell’inizio millennio dove i guru del credito di Wall Street predicavano e insegnavano con il motto  “i soldi non sono un problema, si trovano”, però a debito.

Oggi, dopo tanti disastri, sono scomparsi quasi tutti, però con liquidazioni milionarie come quel noto Mr Richard Fuld, numero uno della Banca Lehman, il cui fallimento  ha innescato la crisi del 15 settembre 2008 le cui ferite non sono state ancora rimarginate in tutto il mondo ed in particolare in Italia.

Da quella brutta esperienza, dove avere debiti significava essere cool siamo passati alle difficoltà attuali dove trovare i soldi  per le  grandi imprese e ancora di più per le medie e piccole è una gara a ostacoli, cioè un vero problema.

Il problema è che le banche da quel 15 settembre hanno chiuso i rubinetti del credito e si sono dedicati al recupero del credit crunch, cioè ai crediti irrecuperabili (oggi ammontanti a oltre 200 miliardi di euro).

Ritorniamo alla nostra analisi di partenza circa il debito pubblico. Il nostro Paese, in termini di debito pubblico, non è secondo a nessuno, anzi si piazza dietro Giappone e Grecia.

Abbiamo un debito che ammonta a 2170 miliardi.

Se tale ammontare lo dividiamo per 60 milioni di italiani, fa circa 36 mila euro a cranio. Insomma, un autentico macigno che non ci fa stare molto allegri.

Negli ultimi cinque governi si è tentata la strada della cosiddetta spending review mettendo in piedi ben 33 rapporti per ridurre l’elefantiaca spesa  dell’amministrazione dello Stato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il debito (cioè il macigno) è cresciuto anziché diminuire; tanto che negli ultimi tre mesi del 2016 è aumentato di ben tre punti passando da 132,1 a 135,1. Oggi solo la Grecia vanta un debito più alto del nostro (168,8).

Il macigno diventa sempre più corposo anche per via dei circa 70/80 miliardi d’interessi che dobbiamo pagare sul debito.

I conti dello Stato sono come quelli delle famiglie, vanno corretti e sistemati. Ma, se le entrate sono inferiori alle uscite in modo sistematico, si andrà incontro al pagamento di ulteriori interessi. Orbene, è quello che è accaduto negli anni Sessanta e proseguito negli anni Settanta, e così via negli anni a seguire sino oggi.

L’Italia, o meglio i governanti che via via si sono succeduti, hanno perso una grande occasione.

Oggi, pur in presenza di tassi a zero, o quasi, quel debito di 2170 miliardi di euro continua ad aumentare. Se i tassi d’interesse dovessero aumentare… non sappiamo dove andremo a sbattere.

La classe politica anziché arginare, cioè porro un freno, alla crescita perniciosa del debito pubblico ha preferito rimuovere il problema. Sperando forse che il tempo – nel suo perenne scorrere – ne curi magicamente le ferite.

E’ bene pensare al 2011 per ricordarci come la mancanza di fiducia dei nostri creditori istituzionali ha fatto schizzare in alto lo spread, il che ha causato, a sua volta, un innalzamento degli interessi da pagare in cambio della sottoscrizione dei nostri titoli di Stato.

I governanti devono attivarsi a creare le basi per spingere in alto il Pil. Contestualmente devono convincersi di diminuire le spese per alimentare la Pubblica Amministrazione, evitando sprechi e ingiustizie nella distribuzione della ricchezza . Evitando privilegi di casta, specialmente nei vari organi dello Stato a scapito dei cittadini o meglio dei comuni mortali.

Eliminare le Regioni a statuto speciale perché oggi non hanno nessuna ragione di esistere.

Vedi la Regione Siciliana che, con circa 20 mila  dipendenti (cinque volte più della Lombardia che vanta il doppio degli abitanti), affronta una spesa annua di circa 760 milioni che, aggiungendo gli oneri sociali, tocca 1 miliardo di euro. E’ razionale? Sappiate anche che tale costo copre la metà della spesa del personale delle altre 15 Regioni a Statuto ordinario, nel suo complesso. E’ o non è una pazzia?

Per non parlare dei forestali che sono circa 28.000 per un territorio di 5100 km quadri. Questo è un non senso pirandelliano? Si. Ma è anche una riserva di caccia sicura per una certa classe politica.

Insomma non c’è tanto da capirci: finché si continua a perseverare nella filosofia del bla bla bla, nessuna formula macro-economica ci potrà mai fare invertire la rotta.

Se mi è consentito, vorrei chiudere questo contributo non con ulteriori consigli tratti dalla scienza economica – visto lo scarso effetto che hanno nell’operato del politico italiano – ma ricorrendo agli insegnamenti di Adam Smith (non in quanto padre dell’economia classica) ma invece dalle sue riflessioni, sempre attuali, tratte dalla sua “Teoria dei sentimenti morali”. Trattasi di una grande opera, a torto trascurata, e, a ragion del vero, anche da chi scrive, e per un economista è un po’ imbarazzante dichiararlo.

Smith scrive: “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla”. Qui Smith traccia il sentiero che porta all’integrità e alla virtù, spiegandoci perché valga la pena intraprenderlo.

Ma se anche la teoria dei sentimenti morali non dovesse bastare a smuovere le coscienze di amministratori, governati o politici non resta, come ultima analisi, che ricorrere a Paolo di Tarso che così scrive: “Non spegnete lo spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono.” (Tessalonicesi, 5,19-21).

Salvatore G. Blasco




VANELLE NUMERATE UNO STRAVOLGIMENTO DELL’IDENTITÀ UNA CANCELLAZIONE DELLA MEMORIA

Non sappiamo quale genio abbia ispirato la commissione toponomastica o il funzionario comunale che pensò di ordinare lo stradario rurale indicando con numeri le varie vanelle.

Questo o questi signori, forse erano talmente innamorati di Pitagora che vollero rendergli omaggio con una sorta di parafrasi alla “tavola pitagorica”; oppure erano srdadicati dal territorio e, non conoscendo il nome originale che le contraddistingueva, e, non volendo percorrere il territorio per cercare informazioni sui nomi esistenti (lavorare stanca), pensarono bene di facilitarsi il compito ricorrendo ai numeri.

L’idea, qualunque sia la ragione che l’ha ispirata è quantomeno arbitraria, certo è originale, non so se esistano altri comuni d’Italia che abbiano adottato tale criterio toponomastico.

Questo criterio neutro, asettico, assolutamente slegato dalla denominazione delle contrade, avulso dalla memoria e dall’identità del territorio assai presente ancora oggi pur nel susseguirsi delle generazioni, oltre che anomalo è disorientante perché sostituisce ad un nome un numero (roba carceraria) cioè cambia codice, passa dall’identificazione all’elenco, dalla identità denominativa alla redazione di un indice dei capitoli.

Questa individuazione numerica forse può risultare utile ad un ufficio di manutenzione, ma disorienta chi deve individuarle per raggiungerle, non si capisce la coordinata cui riferirsi, non indica la zona, non c’è riferimento a niente, proprio perché il codice è avulso dalla realtà territoriale fatta innanzitutto di contrade, ma anche di confinamenti, di adiacenze ad arterie intercomunali, provinciali, statali, tutti elementi che guidano ed orientano.

All’inizio l’adozione di questo criterio, che non è mai attecchito presso gli abitanti del territorio, ha creato non pochi problemi nel recapito della posta e nell’individuazione di aziende produttive sparse nel territorio a cui consegnare merce o da cui ritirarla. Oggi per via degli strumenti computerizzati ormai presenti in quasi tutti i mezzi di trasporto questo problema è ridotto di portata, ma rimane quello dell’estraneità memoriale, quello dell’avulsità territoriale, insomma è disorientante psicologicamente perché sradicato dal contesto.

Le vanelle naturalmente non sono un’invenzione moderna, sono sempre esistite e ovviamente denominate perché le attività umane, economiche e sociali, lo richiedevano. Il territorio modicano è sempre stato antropizzato, le famiglie legate alle attività agricole, cioè la maggioranza della popolazione, abitava in campagna, nella casa colonica, dove esercitava l’attività.

A differenza dei comuni limitrofi che legavano la campagna al lavoro e a fine giornata il lavoratore rientrava in paese dove dimorava la famiglia, Modica ha sempre avuto una specificità abitativa rurale perché la maggior parte dei contadini, piccoli o grossi, non si limitavano a coltivare la terra, ma esercitavano anche la zootecnia. Questa specificità richiedeva l’impegno di tutta la famiglia e ciò dava al territorio specificità urbanistica, sociale, antropologica e di costume, non dimentichiamo che autorevoli studiosi parlano di “civiltà contadina”.

Le vanelle e la loro denominazione fanno parte intrinseca dello stile di vita dei modicani più che altrove, tutti abitavano le campagne, anche chi non lavorava la terra vi trascorreva le vacanze estive.

La denominazione di queste vanelle formava una sorta di anagrafe con nome e cognome, nel senso che era legata certamente alla contrada, ma a volte vi era innestato il nome di una famiglia importante, altre volte una sorgente, altre ancora un sito archeologico, oppure una leggenda o un mito, in certi casi faceva riferimento alla struttura territoriale, alla composizione organica prevalente del terreno, alla vegetazione primigenia, alla natura/struttura delle rocce, alle cave di scorrimento delle acque, all’altitudine dal mare.

Insomma i nomi registravano una storia, una consuetudine, un senso produttivo, erano uno scrigno di memoria illustrante, orientante, narrante, carica di senso e di suggestioni estetiche, si pensi a Ciarciuri che voleva dire fior di fiore.

Il sistema della numerazione genera estraneità e la generazione degli “anta” non l’ha mai adottata, anche molti giovani, quelli che hanno avuto la fortuna di avere trasmessa memoria dai genitori, fanno riferimento alla vecchia denominazione perché la logica è una categoria psichica.

La o le menti che tutto ciò hanno pensato di ignorare, di cancellare con un colpo di spugna, dovevano essere affette non solo da ignoranza crassa, ma anche da una singolare forma di obnubilamento, una forma di amnesia che li ha resi incapaci di rammemorare il passato e di prefigurare il futuro.

Del danno all’identità e dell’offesa alla memoria di questa denominazione numerica era ben consapevole un cittadino attento e militante, profondo conoscitore del territorio come Nannino Ragusa, che, insieme a due collaboratori (PierGiorgio Barone e Cannata) che gli facevano da autisti e assistenti nella ricognizione territoriale, prepararono e consegnarono all’ufficio urbanistica, alla fine degli anni 80, un elenco di tutte le vanelle denominate coi nomi originali.

Non se n’è fatto mai nulla, piuttosto d’ufficio si è proceduto a installare le tabelle riportanti il numero, dove la vanella 11 non si trova prossima alla 13 che può trovarsi in zona opposta territorialmente, insomma un sistema, come su detto, privo di coordinate. Se ne deduce che la politica non ha mai considerato il problema della perdita di memoria, dell’oblio di tradizione, salvo poi, quando è il momento della propaganda, a nominare il rilancio del territorio, come se questo potesse farsi con la fionda.

Oggi che si è finalmente capito che anche il territorio paesaggistico agreste può arricchire la proposta turistica, cosa testimoniata dal successo dei numerosi alberghi e agriturismi sparsi nelle varie contrade, sarebbe ora che la politica intervenisse, sarebbe ora di ripescare la proposta di Nannino Ragusa che giace muta sotto la polvere. Da quel lavoro certosino, un prezioso scrigno della memoria, emergerebbe materiale utile per le varie guide che accompagnano i turisti nelle escursioni.

Ci auguriamo che il Sindaco Abbate dia presto precise disposizioni in tal senso, i tempi sono maturi, la politica di marketing si aggancia alla cultura e alla memoria, fa riferimento alle radici per fare germogliare rigogliose fronde.

Non si perda più tempo, si agisca presto prima che il nulla che sottende la numerazione crei vuoto anche nelle menti delle generazioni attuali e future.

Carmela Giannì