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La Modica di Enzo Belluardo




A Modica tutto sbiadisce… pure le insegne




È FORSE QUESTA LA PASQUA?

Noi uomini, tutti, diamo la colpa ognuno al nostro Dio per tutto ciò che succede nel mondo, intanto vogliamo a tutti i costi essere un dio.

Nulla da dire, se non che il mondo e ogni nazione o paese in cui viviamo, potrebbe essere il posto migliore per viverci in pace solamente se mettessimo in atto un po’ di buona volontà mischiata al valore più grande che esiste ma che abbiamo dimenticato: l’Amore.

E di amore oggi desidero parlare, l’amore che un qualsiasi insegnante dovrebbe professare, a scuola, a casa, in ogni luogo e posto di lavoro. Purtroppo però, sempre più spesso la professione non è fede e neppure rispetto o fiducia riguardo ai nostri simili che, poi, sono i nostri fratelli.

Abbiamo dimenticato in fretta, anzi, ci hanno imposto di dimenticare la bellezza della serenità, della preghiera rivolta a un Dio o a una Madonna, o anche a un padre defunto o a un Santo, ma anche a un fratello, a un amico, a una mamma. Abbiamo dimenticato la pietà, quella come sentimento di dispiacere, l’importante è diventato piangere un momento per gli altri e poi tornare a noi felici di non essere quegli altri. Ma noi lo siamo!

Tante piccole cose che potrebbero renderci grandi, ci rendono invece insensibili alla sofferenza di chi non sa chiedere aiuto.

Un sindaco di una città che dovrebbe esserne il padre, spesso è solo un figlio avido e viziato.

Un medico in ospedale che dovrebbe curare un malato, spesso è solo un giudice di presunzione.

E un giudice in un’aula. che dovrebbe fare rispettare la legge uguale per tutti, molte volte la divide gli uomini in base al suo umore o al suo essere razzista.

E un razzista spesso non lo è ma lo facciamo diventare semplicemente con l’istigazione.

Non mi piace questo mondo dove tutti ci permettiamo di uccidere, se non con le armi, con comportamenti crudeli o con parole omicide.

Non mi piace questo mondo che rende avaro il ricco e valoroso il morto.

Non mi piace questo mondo che si permette di giudicare il Dio uomo della nostra cultura e morto sulla croce per noi con umiliazione e dolore per esserci d’esempio in umanità, e questo mondo invece non riesce a giudicare se stesso.

Non mi piace questo mondo ma ci vivo e prego Dio, perché io ci credo che noi tutti uomini del mondo ci uniamo in preghiera chiedendo perdono, se non a Dio, a noi stessi almeno, per come abbiamo ridotto la nostra e la vita altrui, povera e senza speranza, persa strada facendo dopo le guerre di pace dei nostri avi che volevano semplicemente migliorare il Mondo rendendolo più Umano e uguale per tutti.

E’ forse questa la Pasqua?

Sofia Ruta

 




versi di versi per versi e detti male detti

Il buon gusto è innato.

Il cattivo gusto si acquisisce

e zittisce

ogni malcapitato.

 

Persino

il destino

del vino

è cinico e baro.

 

I politici di ieri

erano seri.

I politici di adesso

sono un cesso.

I politici di domani:

manco a li cani!

 

Lo stupido brilla

senza una scintilla

d’intelligenza.

 

La cacca s’attacca

bislacca

alle facce di bronzo

come lo stronzo.

 

Prima di fare

è d’obbligo pensare.

Prima di pensare

bisogna sgomberare

il cervello

per evitare di fare

bordello.

 




RELIGIONE O SPETTACOLO?

La chiesa cattolica, in Italia (non so in altri paesi), qui dove viviamo noi, in provincia di Ragusa, non può fare a meno di fare e dare spettacolo. Mi correggo: non la Chiesa cattolica, ma le comunità locali parrocchiali e paesane. La Chiesa cattolica solo in quanto non interviene a correggere, a indirizzare, a educare all’autentico sentire religioso. Non ne può fare a meno, pena la sua fine. Tutta l’impalcatura gerarchica con il suo cerimoniale e rituale palinsesto non avrebbe più senso e ragione d’esistere. Che poi sarebbe, credo, la vera ragione per cui il sinedrio chiese a Pilato di crocifiggere l’uomo reo di dire “non essere il suo regno di questo mondo”.

Le principali feste religiose cattoliche Natale e Pasqua non si sottraggono alla spettacolarizzazione di massa, anzi ne sono le principali occasioni. Natale con il presepe vivente, da alcuni decenni, ci dà puntualmente appuntamento in alcuni paesi della nostra provincia con lo spettacolo della natività, con il bue e l’asinello, Giuseppe e Maria con contorno di qualche pastore e qualche angelo a fare “rivivere” (si dice così) l’evento annuale e rituale della nascita del bambinello Gesù a Bethlemme, in una grotta di nuda, umida e fredda roccia, o in mancanza, in una stalla o in un dammusoa piano terreno, basso e con qualche ragnatela nel soffitto e nelle pareti che ci dia l’impressione di una stalla. La gente accorre dalle città e dai paesi vicini, fa il giro dei vari laboratori e botteghe che vogliono rievocare il tempo che fu, di cui non abbiamo nessuna nostalgia ma che fanno atmosfera popolare della semplice vita di quartiere paesano. Lo scopo è quello di spendere qualche soldo da parte delle amministrazioni comunali, con compiacenze di utili tornaconti politici e non e, forse, delle associazioni commerciali per vendere prodotti “fatti in casa”.  Qualche cornamusa fa sentire il suo lamento, qualche martello batte su un’incudine, qualche deschetto ci dà l’immagine del ciabattino, qualche calderone ci dà l’idea del ricottaro, qualche pezzo di corda quella del cordaro ecc., qualche quartaraquella del “lantinnaro”.

Passa Natale e aspettiamo Pasqua.

La via crucis romana è la rappresentazione sacra, nazionale e internazionale, grazie alla TV. Le TV esaltano la sacra rappresentazione, la figura del pontefice ne fa un momento eccezionale. La chiesa dà l’esempio e le parrocchie delle varie chiese di paese danno anch’esse spettacolo mettendo su un palco una croce da cui pende la sagoma di un uomo crocefisso lacero e sanguinoso con in testa una corona di spine e attorno ai lombi un lenzuolino. Ai piedi una figura di donna velata stretta nel suo abito nero e un soldato romano con la lancia che prova a trafiggere al petto il “pendu”.

A questi spettacoli di piazza si riduce tutta la religiosità dei tantissimi credenti, in chi e in che cosa? Non lo sanno neppure loro.

L’evento di ogni annuale rito religioso dovrebbe essere un momento di interiorizzazione, di commosso sentimento religioso che insegni al credente a meditare tutta la nostra finitezza e pochezza umana di fronte al mistero dell’ignoto, dell’infinito tempo e spazio, a farci sentire in comunione con il prossimo ed invece è ridotto sempre più a intrattenimento, a spettacolo, a farsa. Il mezzo televisivo incoraggia la spettacolarizzazione. Abituati alla televisione, se non vediamo qualche sceneggiato, non ci pare vero che possa essere Natale o che ricorra Pasqua. Manca poco che Natale sia fatto consistere e confuso con le pile di panettoni e pandoro nei supermercati alimentari e Pasqua con le colombe e le uova di cioccolato.  I bambini ne sono persuasi. A noi adulti ci resta solo da scegliere se acquistare un panettone o un pandoro; se un uovo di cioccolato fondente o al latte.

V.




LA SINDROME DEL MARCHESE DEL GRILLO

La sera del 15 aprile la cattedrale di Nostre Dame è stata gravemente danneggiata da uno spaventoso incendio e già la mattina del 16 centinaia di milioni erano stati messi a disposizione per la sua ricostruzione da parte dell’élite economica del paese. Tutta la Francia si è stretta compatta attorno alla sua cattedrale, tutta la Francia ha pianto, tutta la Francia si è sentita ferita. Vorremmo trovare quella compattezza nel nostro paese, vorremmo vederla a Modica e invece constatiamo che la nostra città persiste nelle sue divisioni, nelle grette rivalità, nell’invidia. Ostentiamo un atteggiamento sprezzante nei confronti della grandeur della Francia, senza capire che quella grandezza nasce dalla profonda e forte unione del suo popolo. Tutte le nazioni d’Europa sono state dilaniate, attraverso i secoli, da continue guerre, ma quelle che hanno saputo subito ricompattarsi, quelle il cui popolo ha voluto ricostruire unito, sono risorte, sono cresciute, si sono rafforzate e hanno saputo ben presto emerge sulle altre. Di questo l’Italia invece non è stata capace, si è aggrappata alle rivalità, alle invidie ben oltre il già deleterio campanilismo per sminuzzare la sua gente in gruppuscoli abbarbicati al proprio limitato orticello che, per la sua piccolezza, è diventato sempre più insignificante e inutile.

Campione di tutto questo è la nostra Modica, una cittadina che in passato si era eretta maestosa nella Sicilia Orientale, Modica, sede di una Contea in cui la civiltà e le arti prosperavano, Modica, oggi un paesotto abbandonato a se stesso, trascurato, vilipeso, dimenticato, in cui ancora ci si schiera in fazioni per rivendicare la primogenitura di qualsiasi iniziativa. Con quale risultato? Che tutte le cose belle, le iniziative più intelligenti e brillanti s’infrangono contro l’ostilità di chi, associandosi, potrebbe far crescere quei progetti (spesso progetti importanti, che potrebbero dare gran lustro alla comunità) che regalerebbero a tutta la popolazione notorietà e ricchezza.

Ecco allora che si attira il turismo attraverso Montalbano, un progetto televisivo nato e finanziato altrove, del quale Modica altro non è che la location. Persino il cioccolato, un prodotto che, pur essendo il consumismo alimentare il più affermato nel mondo d’oggi, ha stentato ad affermarsi per le lotte accanite fra i produttori che, più che mirare alla diffusione del prodotto, puntano a cancellare dal mercato quello che vedono come un odiato rivale anziché quello che è realmente, cioè un elemento importante del proprio mondo.

L’ultimo scontro in ordine di tempo avviene proprio nel momento in cui si dovrebbe celebrare la pace: è lo scontro di Pasqua fra le due bande cittadine, perché, a quanto pare, nonostante le numerose cerimonie tradizionali di questi giorni, pare che non sia possibile scegliere, l’una e l’altra, momenti diversi in cui esibirsi. Già, forse si teme che l’altra, la nemica, sia privilegiata nell’orario o nel tipo di cerimonia? Patetico! Pensare che le due bande, ciascuna delle quali portatrice di valori e impegno, potrebbero arricchire la città con la loro presenza mentre in questo modo la impoveriscono soltanto e, come se non bastasse, impoveriscono e sviliscono pure se stesse!

Poi ci chiediamo il perché della fuga dei cervelli dall’Italia: non sono loro che fuggono, siamo noi che li cacciamo.

E’ la sindrome del Marchese del Grillo: “Io so’ io e voi nun siete un cazzo”. E poi? Io divento sempre più piccino e povero e patetico e, proprio come il Marchese del Grillo, nascondo la mia povertà dietro vesti rattoppate.




Le ricette della Strega (a cura di Adele Susino)

Spaghetti alla chitarra con vongole e profumo d’arancia

Ingredienti:
500 gr di spaghetti alla chitarra, 500 gr di vongole, 100 gr di formaggio aromatizzato all’arancia, 1 spicchio d’aglio, 1/2 bicchiere di vino bianco, 1 ciuffo di timo limone, 1 ciuffo di prezzemolo, q.b. di olio evo, sale e peperoncino

Preparazione:
Il formaggio all’arancia è un canestrato aromatizzato da scorza d’arancia, lo preparano dei produttori locali, eventualmente si può usare un primo sale e della scorza d’arancia. Lavare le vongole e metterle in tegame con olio, aglio, peperoncino, un po’ di prezzemolo e di timo, chiudere e aspettare che si aprano. Aperte le vongole, sfumare con il vino e completare la cottura. Sgusciare le vongole, lasciandone qualcuna per decorare il piatto, e rimetterle nel sugo di cottura. Cuocere la pasta e a metà cottura metterla nel tegame delle vongole e far completare la cottura aggiungendo man mano l’acqua della pasta. A cottura ultimata aggiungere, a fuoco spento, il formaggio grattugiato, mantecare unendo dell’acqua e spadellare per formare la cremina, servire aggiungendo le foglioline di timo, un filo d’olio e le vongole con il guscio.




FLUCTUAT NEC MERGITUR

“Parigi brucia?” chiedeva al telefono urlando un Hitler isterico al generale Dietrich von Choltitz, governatore di Parigi, nell’agosto del 1944. Von Choltitz, da soldato esperto, aveva capito che la guerra era ormai persa. Trasgredendo agli ordini del Fürer, stava trattando la resa con i partigiani francesi e, da persona colta amante del bello come tanti altri ufficiali tedeschi, si guardò bene dal distruggere la Ville Lumière, e il mondo intero gliene sarà sempre grato.

Lunedì 15 aprile ’19, un incendio ha distrutto il tetto e la guglia della cattedrale di Notre Dame: tutti abbiamo seguito le fasi del propagarsi del fuoco in tempo reale alla tv: il crollo della guglia è stato uno spettacolo particolarmente drammatico

Scrivendo di questo evento a distanza di una settimana, mi sembra significativo studiarne gli effetti provocati nelle menti della gente.

Un certo numero di studiosi di simbologie esoteriche e di esploratori dell’arcano si è immediatamente buttato a cercare tra le centurie di Nostradamus la previsione della distruzione del luogo sacro eretto a simbolo della città di Parigi e dell’intera Francia. Anche i cabalisti hanno cercato il significato dell’evento nei numeri, non sappiamo con quali risultati. In tanti hanno interpretato l’evento come segno della prossima caduta dell’Europa Unita… e si sono fregati le mani dalla goduria. Qualcuno si è premiato con una guardata al Grande Fratello, ovviamente annunciata con un tweet…

I cattolici francesi hanno subìto l’ennesimo attacco ad una chiesa, stavolta la più importante di tutte e all’inizio della Settimana Santa: attentato sacrilego o segno del Cielo stigmatizzante le nequizie perpetrate in Libia? Alcuni credenti hanno affermato di aver visto la figura di Gesù tra le fiamme della flèche… potenza della fede!

Il giubilo manifestato dai jiahdisti, ripreso e moltiplicato da siti razzisti sui social network, ha subito dato la stura ad ipotesi di attacco terroristico, che Parigi purtroppo ben conosce. La mancata rivendicazione dell’attentato da parte islamica è stata accolta con sollievo dal governo francese, intenzionato a non rinfocolare l’odio razziale per ovvi motivi di sicurezza, anche se l’ipotesi del sabotaggio da parte di un operaio di origine maghrebina forse sarebbe piaciuta assai nell’entourage della Le Pen.

Scartato il dolo, la causa viene ricercata in un corto circuito dell’impianto elettrico del cantiere di restauro, i cui ponteggi fasciavano l’incrocio delle navate col transetto fino all’altezza della base della guglia. Gli impianti di cantiere sono da sempre punto dolente della sicurezza perché volanti e provvisori: se non si prendono tutte le opportune cautele seguendo con rigore la normativa, il rischio è sempre presente.

L’arrivo dei vigili del fuoco è stato tardivo: l’allarme antincendio è suonato una prima volta le 18,20 e una seconda alle 18,43. Il controllo fatto dai guardiani non aveva segnalato pericoli, ma per precauzione tutti i visitatori erano stati allontanati. Quando finalmente sono arrivati i soccorsi, le fiamme stavano divorando velocemente la struttura lignea del tetto e avevano avvolto la guglia. In molti ci siamo chiesti perché non fosse intervenuto un Canadair a gettare acqua dall’alto: pare però che questi aerei siano stanziati tutti nel sud della Francia, e che l’acqua, cadendo da alcune centinaia di metri, avrebbe provocato grandi danni. Forse si sarebbero potuti utilizzare piccoli elicotteri e prelevare acqua dalla Senna, che circonda l’Ile-de-la Cité, a pochi metri dal luogo dell’incendio: chissà se i danni che avrebbe procurato la caduta d’acqua sarebbero stati maggiori di quelli provocati dal fuoco, che in pochissimo tempo ha distrutto l’unica opera totalmente originale dell’edificio, la celebre struttura lignea del tetto, una vera foresta di travi di quercia risalente al 1200.

La cattedrale non era dotata di impianto antincendio nel sottotetto, e l’allarme non era collegato direttamente ai vigili del fuoco. Non esisteva alcun piano d’intervento né di rapida evacuazione della gente: insomma, sicurezza zero.

Per una volta, da italiani esterofili e sempre pronti ad auto denigrarci, proviamo a sentirci superiori a qualcuno: la nostra Protezione Civile è sicuramente meglio organizzata ed efficiente, e i nostri vigili del fuoco non avrebbero mai permesso uno scempio simile!

A guaio avvenuto, tante persone si sono dichiarate basite, affrante, ferite, distrutte: la perdita (parziale) di uno dei simboli dell’identità parigina, i ricordi di viaggio e di vita nella città europea non la più bella ma certamente la più charmant d’Europa hanno spinto molti ad usare l’hashtag “Je suis Notre Dame” sui loro profili in rete.

Tante le voci levatesi per piangere la perdita del monumento più importante di Francia, il capolavoro del gotico francese, dimenticando – o ignorando – che la cattedrale nel corso dei secoli è stata più volte saccheggiata, assaltata e fatta oggetto di furie iconoclaste e anticlericali, tanto da essere stata più volte rimaneggiata e ristrutturata con mano pesante, buon ultimo da Viollet-le-Duc, autore tardo ottocentesco della guglia andata a fuoco. Le vetrate policrome attualmente presenti sono addirittura moderne, piuttosto brutte. In sostanza, nessuna opera d’arte è andata perduta. Ben diverso, enorme danno sarebbe stato un incendio alla Sainte Chapelle, che sorge anch’essa sull’isoletta in mezzo alla Senna, vero incredibile capolavoro del più puro gotico fiorito, un trionfo di sottilissimi arditi pilastri polistili e di slanciati archi ogivali che racchiudono immense vetrate policrome legate a piombo risalenti al sec. XIII, e miracolosamente scampate alla furia delle devastazioni della seconda guerra mondiale.

Visto che tutti gli edifici cattolici francesi sono di proprietà dello Stato, la responsabilità della manutenzione e della sicurezza grava completamente sull’erario francese e nulla può fare il clero locale se non sollecitare gli interventi di restauro, che vengono per lo più disattesi.

Il giovane presidente Macron, a fronte dei giudizi degli esperti che stimano in almeno dieci anni la durata dei lavori di ripristino, si è sbilanciato ad affermare che Notre Dame tornerà a splendere “più bella e più superba che pria” nell’arco di soli cinque anni. Sarà, però a noi italiani fa venire in mente il Nerone di Petrolini…

Lo sciovinismo francese, supportato da un regime fiscale che favorisce in modo cospicuo le detrazioni d’imposta sui capitali versati per finalità d’interesse nazionale, in questa circostanza è stato provvidenziale: tutti i magnati dell’industria del lusso e le griffes della moda si sono gettati a capofitto nella gara a chi offre di più per la ricostruzione. In pochi giorni è stato raccolto quasi un miliardo di euro, quasi quattro volte la cifra necessaria!

Voci maligne dicono che tutta questa generosità non è altro che un’operazione di marketing estremo: con tutti quei soldi si possono fare miracoli umanitari nel terzo mondo, ma vuoi mettere il ricasco d’immagine? Come può un bambino africano denutrito competere con Quasimodo ed Esmeralda?

La malignità estrema riguarda proprio Macron, che sarebbe il mandante oscuro del disastro per distogliere l’attenzione dalle sommosse dei gilet jaunee dai loschi maneggi in atto in Nord Africa, con l’aggiunta di una montagna di quattrini donati che potrebbero dare ossigeno al bilancio statale.

Infine, spettacolo poco edificante, la ridicola corsa delle archistar, fomentata dai social network, all’accaparramento del progetto per la ricostruzione della guglia. Renzo Piano e Massimiliano Fuksas hanno i loro studi parigini proprio di fronte alla cattedrale, e di Santiago Calatrava gira già l’immagine del plastico, che in realtà è quello fatto per la chiesa di St. John the Divine a New York ma che potrebbe essere riciclato…

Staremo a vedere come va a finire: come recita il motto nello stemma della città, anche sbattuta dai flutti Parigi non affoga!

Di sicuro c’è che i francesi, nel bene e nel male, sono una nazione compatta e solidale. Da noi sono andati a fuoco teatri famosi, la cappella della Sindone, i terremoti hanno spianato mezz’Italia, mareggiate violente hanno sconvolto Portofino e isolato le Cinque Terre e dei soldi raccolti con faticose collette dalla gente comune e con parche donazioni di nababbi nostrani se ne sono perse le tracce… anzi, alcuni ricconi hanno chiesto sussidi e rimborsi per le barche perdute!

A quasi 160 anni dall’unità d’Italia, bisogna ancora fare gli italiani.

Piccola nota in calce: è curioso il fatto che spesso assurgono ad icona simbolica di una città non i monumenti veramente significativi, ma piuttosto dei manufatti di pochissimo valore artistico che però colpiscono facilmente l’occhio e lo spirito delle masse: a Parigi la Tour Eiffel e il Sacré Coeur a Montmartre, il Ponte Guerrieri e la Torre dell’Orologio a Modica.

Lavinia P. de Naro Papa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo gli attentati del 13 novembre 2015la frase è diventata emblematica della capacità di Parigi di reagire, unita, di fronte alle avversità. È stata infatti dipinta dai manifestanti sui muri della città e in Place de la Républiquenei giorni successivi. È stata inoltre proiettata tramite un fascio di luce sulla Tour Eiffel, illuminata per l’occasione con i colori del tricolore francese.

 




OGGI VI NARRO UNA STORIA

Ha esordito così, Giada Ragusa, ospite in veste di relatrice, venerdì 12, presso la sede del “Museo del Costume” di Scicli che ogni venerdì ospita la nutrita programmazione culturale dell’associazione “L’Isola”.

Inizia a narrare, disponendosi in piedi, si muove e narra, non solo usando la voce, modulata in maniera appropriata, le parole scandite coi toni giusti e distanziate da pause che ne sottolineano l’importanza nel concatenarsi dei fatti, ma fa di più, gli presta il suo corpo, forse inconsapevolmente, giusto per seguire il filo logico della vicenda interiorizzata, ma la gestualità si somma alla parola, la mano ora si alza aperta per sottolineare un “basta è troppo”, ora scivola molle in avanti per simboleggiare l’inesorabile procedere degli eventi, mentre il suo volto di volta in volta si corruccia, si distende o si contrae. Anche lo sguardo segue la narrazione, a volte sembra guardare lontano come se focalizzasse il passato, a volte si fa prossimo, focalizza l’oggi. Negli intercalari, che riportano supposti sentimenti del personaggio, gli occhi si fanno vividi, presenti, per consegnare ora il dolore, ora il trionfo, ora la soddisfazione per l’esito di una saggia decisione.

Insomma Giada narra e drammatizza, così, in maniera spontanea, senza enfasi, ma sfruttando un talento innato che le consente non solo di rendere vivo il personaggio di cui narra, ma anche il clima del contesto.

Rendere il clima non è cosa semplice, specialmente se per brevità lo si deve fare usando un solo vocabolo, ecco che allora la aiuta la postura che il suo corpo assume, ritto e rigido se si deve accompagnare il vocabolo “violento”; morbido e con spalle leggermente calate se si deve accompagnare “l’attesa subita”; rigido e con il capo in posizione altera, se si deve rendere quello del riscatto, della vittoria.

E’ così che la storia diviene incarnata, e il personaggio raccontato appare presente e palpabile.

La storia narrata venerdì 12 è stata quella di Costanza d’Altavilla, l’ultima discendente direttadella dinastia normanno-sicula fondata da Roberto il Guiscardo, eccola.

Costanza nacque a Palermo il 2 novembre 1154, figlia postuma (nasce tre mesi dopo la morte del padre) di Ruggero II re di Sicilia e della sua terza moglie Beatrice di Reth.

Costanza trascorse l’adolescenza negli ambienti della multietnica corte siciliana, crescerà vedendo una donna, la regina Margherita di Navarra, succedere a suo fratello Guglielmo I come tutrice del piccolo Guglielmo II, vede dunque una donna reggere il regno normanno.
Costanza crebbe in disparte alla corte di Palermo. La sua successione al trono era ritenuta talmente improbabile che fino all’età di 30 anni i dignitari non si preoccuparono neanche di trovarle un marito. Fu messa in convento a 12 anni e vi rimase per ben venti anni, pregando e studiando, divenne colta e saggia.

Quando il secondogenito di Guglielmo I, Guglielmo II, venne incoronato, Costanza uscì dal convento per partecipare ai festeggiamenti.  Probabilmente la principessa non prese realmente i voti, ma restò alla corte di Palermo, considerata come un ramo sterile della casata. Nel frattempo vide morire fratelli e nipoti, sopravvivendo a tutti coloro che erano davanti a lei per la successione alla corona. Intanto Federico Barbarossa venne incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero.

Questo finché il nipote Guglielmo (per ragion di stato, cioè di potere) non la nominò sua erede e combinò per lei un grandioso matrimonio, tramite laboriose trattative tra la corte sveva e quella normanna.

Il 29 ottobre 1184, ad Augusta venne ufficializzata la promessa di matrimonio tra la trentenne colta e saggia Costanza e il diciannovenne Enrico di Svevia, rozzo, ignorante, violento. I due non si conoscono e non hanno neanche una lingua comune con cui parlarsi.

Costanza a seguito di questo matrimonio è costretta non solo a lasciare la vita ordinata e ascetica del convento ma anche a lasciare calore e colori della Sicilia per portarsi nel grigiore e nel freddo di un continente nordico, non ci vuole molta fantasia ad immaginare la solitudine di incomunicabilità con questo consorte così distante dalla sua indole e la conseguente sofferenza del cambiamento di contesto.

Il 28 agosto del 1185 fu lo stesso re Guglielmo a scortare Costanza a Rieti, dove una delegazione sveva aspettava la sposa per poterla condurre a Milano, dove re Enrico di Svevia la stava aspettando. Si sposarono nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano, ove il patriarca Goffredo di Aquileia incoronò Enrico VI e un vescovo tedesco fece lo stesso con Costanza.

La sposa indossava abiti ricamati e intessuti in oro e argento, era stata accompagnata da non meno di 150 cavalli che trasportavano l’appannaggio personale e il corredo, composto da oro, argento e stoffe preziose. La dote, quarantamila libbre d’oro.

Ai sontuosi festeggiamenti milanesi intervennero principi e nobili di tutto l’Occidente, ma non passò inosservata l’assenza di Urbano III. Il Papa non vedeva questa unione di buon’occhio, preoccupato che con il matrimonio le due corone potessero unirsi rafforzando il potere imperiale a danno del papato.

Nel 1189 il Barbarossa partì per la Terza Crociata, lasciando la reggenza nelle mani di Enrico, e Guglielmo II morì senza lasciare un erede diretto. L’anno seguente, in Terrasanta, Federico Barbarossa, perse la vita.

In seguito a queste due morti Enrico e Costanza ereditano un dominio immenso, unendo la corona imperiale a quella siciliana. Costanza cominciò a fregiarsi del titolo di legittima erede della corona siciliana, appoggiata dai legittimisti siciliani. Alla corte palermitana era però grande la paura di una germanizzazione del Regno.

Nel 1190, grazie all’appoggio dei baroni e dei maggiorenti siciliani, oltre a quello della chiesa di Roma, entrò in campo Tancredi di Lecce, nipote illegittimo di Ruggero II, ma in cuor suo legittimato dal diritto di sangue ad essere legittimo erede al trono, quindi si fece incoronare a Palermo, scavalcando totalmente il diritto ereditario di Costanza.

Solo un anno dopo Enrico e Costanza partirono alla volta di Roma, dove Celestino III li incoronò imperatore e imperatrice, ma alla coppia imperiale non venne ancora concessa la corona del regno di Sicilia.

Due settimane dopo Enrico si mise alla testa di un possente esercito per rivendicare i diritti di successione della sua sposa. Dopo i primi successi seguì un periodo di stallo, durante il quale l’esercito di Enrico fu costretto a rientrare in Germania per rafforzare la posizione della casata sveva. Enrico fu costretto a rientrare senza Costanza, che, alloggiata a Salerno, venne catturata e presa come ostaggio. L’imperatrice venne mandata al cospetto di Tancredi, a Messina. Tancredi la fece trasferire dapprima a Palermo e poi a Napoli, incarcerandola a Castel dell’Ovo.

Costanza non era un ostaggio semplice da gestire: usare la moglie di Enrico come mezzo di pressione politica avrebbe potuto squalificare moralmente i Normanni presso le corti occidentali. Così Tancredi accettò la mediazione di Celestino III e Costanza venne liberata e condotta verso Roma, dove sarebbe stata sotto il controllo del Papa. Durante il trasferimento il corteo venne intercettato dagli armati dell’abate di Montecassino che liberarono la prigioniera e la condussero nei territori germanici.

Nel 1194 Tancredi morì ed Enrico, dopo essersi assicuratoappoggi politici ed economici nella penisola, iniziò una lenta discesa verso la Sicilia. Ancora una volta dovette separarsi dalla consorte che, inaspettatamente, era rimasta incinta.

Costanza aveva quarant’anni, età in cui nel medioevo le donne solitamente erano già nonne. Una gravidanza in un’età così avanzata avrebbe sicuramente dato adito a pettegolezzi di ogni genere. Costanza lo sapeva, e così trovò un modo per mettere a tacere le dicerie, lo fece dimostrando la sua grande forza d’animo ed audacia, la libertà interiore e la grande intelligenza di cui era dotata, sconvolse tutti gli schemi del tempo e si procurò dei testimoni al parto per dimostrare la sua legittima maternità al mondo e al sospettoso e rozzo consorte, nonché la legittimità dell’eredità degli Svevi e dei Normanni.

L’imperatrice voleva che non ci fossero dubbi, così quando arrivò a Jesi, il 26 dicembre, e iniziarono le doglie, fece erigere una tenda nella piazza centrale. Costanza d’Altavilla, imperatrice di Germania e regina di Sicilia, erede dei Normanni e sposa di un re tedesco, incurante del freddo, dei rischi di un parto a quarant’anni e rinunciando a ogni forma di pudore partorì il suo primogenito in una tenda aperta sulla pubblica piazza. Il bambino che vide la luce era Federico II di Svevia, lo stupor mundi, re di Sicilia, Duca di Svevia, Re dei Romani, Imperatore del Sacro Romano Impero e re di Gerusalemme.

Il giorno successivo al parto, Costanza, sconvolgendo tutti, si mostrò nella stessa piazza mentre allattava il neonato.

Nel frattempo Enrico era arrivato a Palermoe il giorno prima della nascita del suo primogenito si era fatto incoronare re di Sicilia, senza attendere di avere al fianco la donna che aveva reso possibile questa incoronazione.

L’incoronazione si svolse dinnanzi a gran parte della nobiltà siciliana, invitata dallo stesso Enrico che aveva promesso loro un’amnistia. In quella circostanza il figlio di Tancredi, Guglielmo, che aveva solamente sette anni, e che era in quel momento il successore, depose la corona appartenuta al padre ai piedi dell’imperatore rinunciando solennemente a ogni rivendicazione.
Questo clima di pace apparente non durò a lungo.

Enrico, basandosi su un sospetto, o forse trovando solamente il pretesto di dover prevenire un complotto, condannò al carcere e a morte diversi centinaia di baroni siciliani. La regina Sibilla, vedova di Tancredi, che aveva regnato come reggente insieme con le sue figlie e la principessa greca Irene, vedova di Ruggero, figlio maggiore di Tancredi, vennero destinati alla prigionia nei territori tedeschi.

Il piccolo Guglielmo subì lo stesso destino, ma prima di farlo partire venne accecato ed evirato.
Costanza, in soli due giorni, divenne regina di Sicilia e madre del successore al trono imperiale.

Da questo momento, e per il resto della sua vita, cercò con tutta sé stessa di proteggere suo figlio e il suo popolo, ponendosi a volte in contrasto con i disegni di suo marito Enrico, che tendeva a trattare il regno di Sicilia come semplice appendice dell’impero.

Costanza ebbe consapevolezza della natura malvagia, sospettosa e avida del consorte, quindi, per poter difendere al meglio gli interessi della corona siciliana,affidò suo figlio alle cure della duchessa di Spoleto e raggiunse il marito a Bari, dove l’imperatore aveva convocato una Curia per cercare di dirimere le questioni ereditarie del Regno.

Lì, Enrico decise di passare la reggenza del regno normanno a Costanza, cercando di ottenere l’unione delle due corone attraverso un passaggio graduale. Costanza si insediò a Palermo e si pose come intermediaria tra il Papa e suo marito. Da regina tentò di difendere i suoi territori dal governo del marito, ma Enrico seppe regnare solo con la violenza, infatti nell’estate del 1197 tornò in Sicilia, dove aveva scoperto una nuova congiura contro di lui, al quale era riuscito a malapena a scampare. Costanza e il papa Celestino furono sospettati di aver partecipato alla congiura. Enrico costrinse la moglie ad assistere alle torture inflitte ai suoi conterranei che avevano ordito il complotto, confinò la moglie nel palazzo reale di Palermo, sotto il controllo del cancelliere Gualtiero di Palearia.

Di lì a poco tempo Enrico si ammalò gravemente e morì, lasciando la moglie e il figlio, che aveva visto solamente due volte.

Per cercare di salvaguardare i diritti ereditari della sua famiglia, Enrico, nel suo testamento, affidò al Papa la consorte e il figlio. Secondo tali volontà il pontefice avrebbe confermato al piccolo successore la imperialis dignitasin cambio della restituzione alla Chiesa dei beni matildini. Inoltre il Regno di Sicilia sarebbe dovuto passare alla Santa Sede una volta terminata la vita della reggente e qualora il figlio non avesse lasciato eredi.

Costanza, però, non conobbe mai le ultime volontà del marito, poiché Marcovando di Anweiler, siniscalco, amministratore e vassallo delle regioni destinate ad essere cedute, fece sparire il testamento in accordo con altri nobili tedeschi che intendevano continuare a governare il Paese a nome dell’Impero.

Avevano però fatto i conti senza tenere conto dell’intelligenza di Costanza,che con enorme lucidità afferrò subito le redini del potere, e, subito dopo la morte del marito, volle immediatamente recuperare il figlio, prima che Filippo di Svevia, fratello del defunto imperatore, se ne potesse impossessare.

Trasferito il piccolo Federico a Palermo, la madre lo fece proclamare re in occasione della Pentecoste nel 1198. Libera dal vincolo matrimoniale svevo, Costanza procedette contro i tedeschi che avevano acquisito posizioni di potere durante il regno di Enrico, ricostruì la Sicilia come regno normanno, assicurandone l’indipendenza e conservandone l’eredità per il figlio; sapendo di non avere molto tempo per rafforzare la posizione del figlio, capì che l’unica soluzione per assicurare un futuro al suo bambino era porsi sotto la tutela della Chiesa.

Per questo, nel 1198, prestò a Celestino III il giuramento di vassallaggio che Enrico si era rifiutato di prestare, chiedendo di essere accolta formalmente con il figlio sotto la protezione ufficiale della chiesa, saldò così gli interessi del figlio con quelli della Chiesa.

Proprio per tale motivo negli anni a venire la Chiesa puntò su Federico per la successione imperiale.
Costanza morì nel 1198 lasciando suo figlio che aveva solo quattro anni. Prima di spirare dettò il suo testamento, nominando Innocenzo III amministratore del regno e tutore di Federico, accordandogli un rimborso sperse e un compenso annuo.

Inoltre nominò un Consiglio di reggenza che avrebbe affiancato il Papa e il figlio nel governo, dimostrando una notevole intelligenza politica, assicurando al figlio un avvenire prospero e facendo in modo che il regno di Sicilia non costituisse mai una semplice appendice dell’Impero.

Dovette affrontare l’inferno, fu oggetto dei disegni del potere, ma seppe, con la grande saggezza ed intelligenza di cui era dotata, raggiungere il disegno che aveva in testa: dare continuità alla grandezza Normanna. Altro che la scialba zitella che tutti credevano destinata all’oblio! Con la forza di una leonessa seppe porre le basi per il regno di Federico II di Svevia, lo stupor mundi.

L’abilità di Giada sta nel sapere porgere questa complessa vicenda di potere, di lotte, di sofferenze, di morti, di strategie, di sospetti, di contrasti e di violenze, in meno di mezz’ora, e nel riuscire a farla percepire come un pregiato francobollo, la cui effige di spicco è Costanza, e il resto una ragnatela che costituisce lo sfondo.  

Carmela Giannì




CALCIO. CONCLUSO IL CAMPIONATO

Appena concluso il campionato di promozione e per le due modicane è tempo di bilanci per poi programmare la prossima stagione.

Il campionato è stato vinto dal Ragusa che, con 66 punti, ha tagliato per primo il traguardo, tornando nel campionato di Eccellenza dopo un solo anno di purgatorio. Ai play off vanno il Real Siracusa, l’Enna e lo Sporting Eubea. Infine Don Bosco 2000 e Barrese vanno in prima categoria.

Prima delle modicane è risultato il New Modica, ottava in graduatoria con 36 punti, frutto di 9 vittorie, 9 pareggi e 10 sconfitte, 37 gol fatti e 40 subìti, un campionato piuttosto in sordina, povero di soddisfazioni, considerando la buona intelaiatura della squadra e le aspettative che dirigenti e tifosi si auspicavano a inizio torneo. Il campionato di promozione, per una piazza come Modica, sta piuttosto stretto. L’unica nota lieta è risultato il buon andamento dei giovani locali che si sono distinti nel campionato.

Di altro avviso l’altra formazione modicana, che, nonostante una buona campagna acquisti, è rimasta impelagata a lungo nella zona calda della classifica rischiando la retrocessione. Ma se per il Modica la promozione sta stretta, il Frigintini brinda alla sua terza presenza consecutiva, quarta in assoluto, nel campionato di promozione, motivo di grande soddisfazione per la dirigenza frigintinese. Frigintini, dodicesimo in graduatoria con 27 punti, frutto di 7 vittorie, 7 pareggi e 14 sconfitte, 27 gol fatti e 45 subìti, ma con la soddisfazione di aver bloccato il Ragusa all’Aldo Campo, e di aver vinto a Enna contro quei gialloverdi ennesi per lunghi tratti capolisti del campionato.

Per il futuro, bisogna anche capire se il polisportivo di Contrada Caitina sarà fruibile anche per il campionato di Eccellenza. Attualmente lo stadio di Contrada Caitina è in ristrutturazione e, per il momento, si gioca solamente nel vecchio stadio Vincenzo Barone, affidato ai privati, che, per le proprie caratteristiche, non consente di disputare partite oltre il campionato di promozione. A proposito, con l’assegnazione ai privati dello stadio Vincenzo Barone, ammodernato con finanziamenti pubblici, le società sportive locali, comprese le formazioni giovanili, devono affrontare un costo di circa 200 euro a partita, con forte risentimento economico per la già deboli società sportive modicane.

Ma non era meglio prima, quando lo stadio, di proprietà pubblica, veniva gestito dal Comune?

Giovanni Oddo