La parola è importante. L’uomo non si rede conto di quale privilegio rappresenti per la sua razza. Non serve solo a comunicare. Per far questo ogni specie ha il suo linguaggio che soddisfa pienamente allo scopo, ma la parola ha qualcosa di più, perché riesce a interpretare l’arte, la scienza, va ben oltre la semplice comunicazione fra individuo e individuo per trasmettere necessità fondamentali. Insomma, riesce a interpretare il pensiero o il sentimento che la produce. Ci riesce talmente bene che è nato dentro di noi il convincimento che la parola conti più del pensiero o sentimento che sottende. Siamo così arrivati a considerare scorrette o addirittura ingiuriose parole che di per sé non conterrebbero nulla di scorretto o di ingiurioso.
Si è stabilito che tali parole andassero sostituite con altre, il problema è che il significato è rimasto inevitabilmente lo stesso.
La prima parola ad essere considerata sconveniente e offensiva fu “negro”, che fu sostituita con “nero”, poi anche questa parve non troppo corretta e si decise di usare “persona di colore”, indicando però, non si capisce perché, sempre la persona di colore nero, mentre quella di colore bianco restava sempre “bianco” e chi aveva la pelle gialla si definiva “asiatico”. Misteri del “politicamene corretto”.
Ai colori della pelle poi si aggiunsero le caratteristiche fisiche, quelle caratteristiche che, nella vita pratica, sono abitualmente viste come invalidanti semplicemente perché la nostra società non si è ancora sufficientemente evoluta da capire, adeguandosi, che ci sono minoranze che si differenziano dalla maggioranza per alcuni aspetti (quali la capacità di vedere o di camminare o di parlare in modo sciolto) e che quindi si considerano composte da individui di seconda categoria (anche se il politicamente corretto c’impedisce di definirli tali), allora, invece di costruire una società capace di soddisfare le loro necessità così come sa soddisfare quelle della maggioranza standard della specie, cambia la definizione che in passato era stata data nella stupida convinzione che il problema sia risolto, così il “cieco” diventerà un “non vedente”, il “sordo” un “non udente” e così via, col risultato che noi ci sentiremo evoluti mentre la loro vita non sarà cambiata di una virgola.
Ma noi che abbiamo l’handicap di un cervello troppo piccolo come ci dovremmo definire per rispettare il politicamente corretto? “Minorati mentali” probabilmente è scorretto. “Imbecilli”? Basterebbe infatti che si adottassero strutture a misura di tutti, in grado cioè di non escludere chi non risponde alle caratteristiche standard del cosiddetto “homo sapiens”, e non dovremmo più arrampicarci sui canoni ipocriti dell’adeguamento (?!) delle parole, ma, adeguando invece la nostra società e soprattutto il nostro cervello, potremmo rendere omaggio a una diversità fra individui che non ci mortifica ma ci esalta.
Ecco, la diversità. Quella diversità che, per essere “politicamente corretti” (cioè, diciamolo apertamente, ipocriti), ci ostiniamo a negare e che è invece la più grande ricchezza del genere umano. Guardiamoci intorno: vediamo masse di individui tutti più o meno uguali, davvero non si riesce a distinguere l’uno dall’altro! Questo è positivo? Indica la crescita della nostra razza o non piuttosto il suo abbrutimento? Eppure c’è stato un tempo in cui tutti, specie i giovani, miravano a distinguersi, sì, a essere diversi dalla massa informe, perché, per farsi largo nella vita, occorreva avere una personalità che li rendesse unici, o quantomeno rari. Allora emergeva lo scienziato, lo scrittore, il pittore, lo scultore, il musicista, perché per avere un peso nel mondo occorreva avere qualcosa in più, occorreva essere DIVERSI. Oggi invece la diversità non è più accettata, la si vuole piuttosto appiattire nella banalità, nel comune, così scegliamo parole che non caratterizzino, che non distinguano. Perché? Forse per non ammettere che lungo il suo cammino l’umanità ha perso qualcosa, ha perso quella scintilla che la distingueva dagli altri animali e, seppur non la rendeva migliore, ne faceva una creatura più forte, più potente.
Sì, nel nostro piattume vogliamo appiattire chi ancora è diverso e fiero di esserlo perché consapevole che quella sua diversità, che pure lo costringe a una vita difficile, spesso di lotta, lo rende “persona” in una massa di creature piatte e inevitabilmente scialbe, tanto scialbe da credere che le parole contino più del pensiero che devono trasmettere.