
Sembra una maledizione, ma in Italia il concetto che il bene pubblico è un bene comune, per tutti e quindi anche mio, che pago le tasse e faccio parte dello Stato, non riesce ad entrare nel codice genetico degli italiani.
Appena una cosa diventa di proprietà pubblica passa immediatamente allo stato di “cosa di nessuno”, quindi vandalizzabile fino al disfacimento definitivo per stupido gioco o per rapinare, sfruttare o rivendere le parti di un qualche valore.
Vediamo tutti i giorni per le strade e nei parchi delle nostre città il disprezzo per la cosa di tutti materializzarsi nei cumuli di immondizia indifferenziata, negli alberi usati come legna da ardere o, se abeti, portati a casa come alberi di Natale, nelle panchine divelte, nelle fontanelle spaccate, negli sfoghi “letterari” dei graffitari che imbrattano ovunque… si potrebbe continuare a lungo.
Sembrerebbe un mero problema di ineducazione popolare o di atavica predisposizione al crimine spicciolo, quindi di un fallimento della scuola e delle famiglie che non riescono o che non sanno come formare il buon cittadino consapevole e partecipe. In parte, purtroppo, questa è la realtà: l’istituzione scolastica troppo spesso non riesce a stare al passo con l’evoluzione della società, e risulta antiquata e noiosa alle nuove generazioni nate con lo smartphone in mano. Le famiglie, anche quando resistono al logorio da stress da lavoro – o dalla sua mancanza! – e alla fine del sentimento che le ha fatte formare, sono in enorme difficoltà nel far comprendere ed accettare ai figli comportamenti virtuosi senza riuscire a darne esempi di utilità pratica in un mondo versato alla venerazione del sopruso e della violenza, reale e virtuale.
Non resta allora che confidare nella solidità delle istituzioni e nei valori civili sanciti dalla carta costituzionale. Ma quando sono proprio le istituzioni a dare segno di squilibrio e a creare stati di sofferenza che vedono inficiare il dettato costituzionale, la sensazione di essere arrivati alla frutta diventa palpabile.
Contro i reati ambientali e gli episodi criminali di vandalismo vediamo lo Stato oscillare tra il garantismo più intransigente, in genere verso i grandi reati commessi dai “potenti”, e la repressione poliziesca più becera, per lo più diretta verso manifestanti in protesta.
La spaventosa crisi della giustizia, recentemente asseverata dall’emersione di dati confermanti pesanti deviazioni morali e materiali di importanti pezzi della magistratura, non aiuta certo la parte migliore della popolazione, che è la maggioranza di essa, ad affermare e a creare un seguito ai principi del buon vivere in condivisione.
Questa discrasia tra l’enunciato enfatico dei valori del bene pubblico in fase di acquisizione e la totale indifferenza e l’abbandono ad acquisizione avvenuta è ben rappresentata nella nostra città da molte situazioni di immobili di prestigio che l’ente Comune ha avuto come lascito testamentario o che ha comprato da privati, a volte dopo anni di trattative esasperanti.
Citiamo solo due casi emblematici: Palazzo Polara e Palazzo de Naro Papa.
Alla sua morte, donna Amalia Polara decise di lasciare al Comune il suo palazzo a fianco del duomo di San Giorgio, completo di arredi e suppellettili, con l’obbligo per l’ente beneficiario di farne sede della pinacoteca comunale.
Lo stato del palazzo era di buona abitabilità e subito fruibile, ma ancora la pinacoteca era da costituire. Per sì e per no, quando il Comune entrò nel possesso effettivo del bene, qualcuno dei notabili di allora pensò bene di chiudercisi dentro per qualche giorno e di asportare quanto di prezioso fosse contenuto al suo interno: a Duccio Belgiorno, che all’epoca era il curatore dei musei e dei beni culturali, fu impedito di redarre un inventario regolare, con numeri e sigle precise per ogni reperto, ma gli fu permesso solo di compilare una lista, priva di codici, degli arredi principali. Fatto sta che la signora Polara pare facesse vita francescana e che non avesse in sua vita mai disposto di argenterie, cristallerie e porcellane… ipotesi assolutamente incredibile. Che si sia trattato di una messa in salvo di oggetti pregiati di facile asporto, la cui presenza sarebbe stata poco compatibile con l’apertura al pubblico, ovvero di vera e propria appropriazione indebita, nessuno sa che fine abbia fatto la roba sparita.
Per diversi anni il palazzo ospitò mostre di pittura, di fotografie, di abiti antichi e financo di rettili esotici: il pubblico non mancava, anche perché era attirato dal fatto di poter visitare una casa “di cavaleri” perfettamente conservata. Peccato che l’allestimento di alcune di queste mostre sia stato fonte di danneggiamento: telai in tubolare metallico di supporto a faretti per l’illuminazione furono appesi senza troppi complimenti alle volte dipinte e, per ottenere una superficie espositiva più ampia del grande salone del primo piano, furono spostate le appliques a parete ponendole talmente vicine ai tendaggi della finestra che questi presero fuoco a contatto con le lampadine ad incandescenza surriscaldate. Nella stessa sala, l’intonaco dipinto ad olio e decorato da piccoli fiori, rara lavorazione dei primi del ‘900, fu impietosamente sfregiato da chiodi per appendervi quadri.
La manutenzione ordinaria si limitava alla sola pulizia, demandata agli espositori che non sempre provvedevano a ripristinare le condizioni quo ante: i decori realizzati da grandi e bei trionfi di spighe di grano e fogliame di varie essenze, terminata la mostra per la quale erano stati creati, furono lasciati all’interno del palazzo che, mesi dopo, in occasione di un altro evento espositivo, fu trovato in balìa di topi ben pasciuti! L’unico intervento pubblico di manutenzione straordinaria fu il rifacimento del tetto ma, non avendone previsto un buon ancoraggio, il manto di tegole scivolò verso il basso lasciando delle lacune dove l’acqua piovana riprese a fare danni.
Solo l’intervento di Santa Lucia, il 13 dicembre 1990, con un terremoto che colpì buona parte del Val di Noto, fece in modo che anche Modica fosse ammessa a fruire dei finanziamenti posti in essere dalla legge 433/91 per gli interventi di ricostruzione e consolidamento degli edifici. Nel corso di lunghi anni, tormentati da iter burocratici, lentissimi e farraginosi, e da sospensioni dei lavori dovute a imprevisti ritrovamenti archeologici e a contenziosi con la ditta appaltatrice, tutti i lavori di consolidamento furono fatti. Trattandosi di bene storico, tra l’altro ricadente nell’intorno di San Giorgio dichiarato sito UNESCO, la legge 433 ha permesso un finanziamento suppletivo per il restauro e il ripristino: le tirantature e le iniezioni di consolidante avevano lasciato pesanti tracce sia all’interno che all’esterno del palazzo che andavano eliminate. A tutt’oggi questi lavori di finitura, che sono però essenziali per la fruizione pubblica del palazzo con destinazione “casa museo” e pinacoteca, ristagnano per insorte difficoltà economiche dovute alla persistente crisi e alle ulteriori difficoltà interposte all’elargizione dei fondi residui da parte della regione: nel frattempo, gli arredi originali sono stati dispersi, in parte riutilizzati all’interno di altri immobili comunali (teatro Garibaldi, Municipio), mentre altri che erano stati temporaneamente spostati al Castello sono stati rubati. Tutti i lavori di restauro già compiuti e quelli in itinere risultano abbandonati e in via di degrado, e i colombacci hanno ripreso il possesso dei luoghi.
Per Palazzo de Naro Papa la storia parte in modo diverso, ma il finale deprimente è il medesimo.
Quando gli eredi decisero di mettere in vendita il palazzo, il Comune si fece avanti subito, non sappiamo se per esercitare un diritto di prelazione. Iniziarono le trattative, lunghissime per una serie di verifiche, stime e adempimenti vari oltre al faticosissimo reperimento dei fondi necessari. A vendita conclusa, il disinteresse e l’abbandono hanno fatto sì che dalle finestre ormai marcite siano entrate orde di uccelli, il cui guano ha imbrattato ovunque, e che si sia atteso il crollo della copertura del salotto per rifare la copertura con la perdita dell’affresco liberty della volta. Nei locali al pianterreno, semiabbandonati, un privato collezionista raccoglie vecchi apparecchi radio, in un altro per un breve periodo venivano distribuiti i mastelli per la raccolta differenziata, sotto un porticato – i pulera di San Giovanni – guarnito di mascheroni di pietra ma ormai fatiscente e da mesi impraticabile per pericolo di crollo. Nessun intervento finora, neanche di puntellamento: una vasta terrazza superbamente panoramica rischia di venir perduta. Lo sfregio del bene storico è poi sottolineato dalla scelta di consentire la sosta davanti al portico e di allocare i cassonetti della spazzatura nel vano del portone seicentesco.
L’osservazione più immediata da fare su questi casi è che un ente pubblico, quando si accolla l’onere di strutture storiche di valore che vengono donate, deve farlo con la consapevolezza che un bene privato diviene pubblico e che quindi deve avere una destinazione d’uso che ne consenta la pubblica fruizione in piena sicurezza e in almeno decente decoro. Se si è coscienti di essere nell’impossibilità di mantenere in buone condizioni l’immobile, è preferibile rinunciarvi. Similmente, è inutile sottrarre al mercato immobili che, una volta acquistati coi soldi dei contribuenti, vengono abbandonati o sottoutilizzati. Perché non renderli fonte di reddito per l’ente? Conservandone la proprietà si potrebbe trovare la possibilità di formule di affitto a privati che volessero esercitare attività turistiche o culturali, assumendosi la manutenzione ordinaria e pagando un canone proporzionato all’impegno del mantenimento del bene.
Il parco della Villa Cascino è stato dato in uso ad una pizzeria con un contratto che prevede a carico del privato la manutenzione del verde: vedremo se i clienti del pizzaiolo saranno rispettosi di un sito che certo ne avrebbe meritato un uso meno prosaico o se costoro contribuiranno al degrado definitivo della villa.
La terrazza di Palazzo de Naro Papa potrebbe ospitare i ricevimenti di nozze civili celebrate in uno dei saloni da dedicare al rito, che attualmente non ha una sede propria, oppure i tavoli di un ristorante stellato: sarebbe bello se voci umane allegre potessero tornare a far compagnia al solo essere vivente rimasto immutato da decenni nella sua giara nonostante tutto, l’indomito profumatissimo gelsomino di nonna Lucia.
Lavinia de Naro Papa