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IN PUNTA DEI PIEDI SE N’È ANDATA

In punta di piedi, lieve come un cigno agitava le braccia che erano ali affidate all’aria di tanti palcoscenici. Vestita di bianco chiffon, avanzava esile a piccoli passi di ballerina abituata alla fatica dei pas de deux e delle piroette ascoltando la musica che dal golfo mistico saliva invadendo sensi e anima.
Il rigore della disciplina mutato nella leggerezza di un gesto significante, in coppia con Rudolf, Roberto e tutti gli altri…
L’ultima danza non poteva essere che un assolo. Niente partner per questa performance, Carla Fracci.

Marisa Scopello

 




La Modica di Enzo Belluardo




STAVOLTA ARISTIDE È PARTITO PER SEMPRE

Ogni tanto partiva e ti capitava d’incontrarlo a Roma, a Venezia, ma da qualche anno non aveva più lasciato la sua città che rallegrava con le sue canzoni per strada, sempre con una bottiglia di birra in mano. Sì, era proprio lui, Aristide Poidomani, il figlio più grande dello scrittore Raffaele Poidomani e della pianista Federica Poidomani Dolcetti.

Aveva avuto un passato burrascoso, al di fuori della legalità, poi aveva scoperto la musica, non la musica immortale tanto amata da sua madre, ma la canzone e in particolare la canzone da strada, quella che cantava in giro per Modica, e non solo, accompagnato dal suo amico Carlino.

La pecora nera della famiglia. Già, però, dopo la scomparsa dei suoi genitori, quando tutti pian piano hanno cominciato a riscoprire e a vantarsi del modicano Raffaele Poidomani (indubbiamente un grande scrittore non ancora sufficientemente valorizzato e fatto conoscere al mondo), solo lui ha mantenuto viva dentro di sé la memoria della madre, la veneziana (quindi non appartenente al mondo modicano) Federica Dolcetti (eppure lei amava mantenere accanto al suo cognome quello di Poidomani, per il profondo amore che l’aveva legata a suo marito e anche per un sincero amore per Modica, la città di Raffaele, la città che lei non aveva più lasciato, una città ingrata popolata da figli ingrati).

Aristide era diventato un clochard, l’aveva scelto lui. Voleva sentirsi libero. Libero anche di mantenere un legame profondo col ricordo di quella veneziana che si era permessa di sbarcare in Sicilia a suonare il pianoforte come pochi, perché lui forse era un po’ matto, forse uno sbandato, ma non era un figlio ingrato, questo no.

Adesso se n’è andato anche lui e ci piace pensare che stia vagabondando tra le nuvole, magari a incontrare Federica e a farla ridere cantandole qualche canzoncina da strada. Ma lassù una bottiglia di birra riuscirà a trovarla? Chissà…

L.Montù




VERGOGNOSO!

Si suppone che chi si prenota per fare il vaccino anti covid, posto che gli viene assegnato l’orario in cui deve trovarsi presso l’hub di riferimento, in quell’orario si presenti e nel giro di poco tempo sia sottoposto alla vaccinazione. Questo è quanto accade in un pese civile. Evidentemente Modica un paese civile non lo è, infatti consente a chi non si è prenotato di presentarsi presso il medesimo hub a richiedere di essere vaccinato. Pare che questa procedura sia perfettamente “normale” e anzi predisposta, col risultato che la gente si stanca oltre il lecito e finisce per dare in escandescenze. Un comportamento incivile? Assolutamente no di fronte alla totale inciviltà di un’organizzazione incapace di garantire un minimo di rispetto per gli esseri umani. Il distanziamento? Nessuno se ne occupa, non i vaccinandi e nemmeno gli addetti all’hub.

Non ci vorrebbe Einstein per ideare di fissare giorni diversi o hub diversi per chi ha la prenotazione e chi non ce l’ha. Questo eviterebbe almeno i litigi motivati. Già, perché chi si presenta senza prenotazione non può imputare ad alcuno un’attesa esageratamente lunga, mentre chi ha prenotato e gli è stato assegnato un orario ha tutto il diritto di veder rispettato quell’orario.

La nostra vita oggi è già tanto difficile, perché il nostro paese fa di tutto per renderla ancora più difficile?

Si parla di somministrare la seconda dose di vaccino pure in vacanza. Pensiamo davvero che nella nostra città ne saremo capaci?

Ninì Giudici




E PURE FRANCO BATTIATO SE N’È ANDATO

Non poteva essere che di maggio, il mese giusto per dissolversi nell’aria mbarsamata di rose rosse, dissolversi nell’oceano di silenzio sospendendosi al nulla. Franco Battiato se n’è andato lasciandoci l’incanto di nuove prospettive che superano le correnti gravitazionali, spazi da attraversare come aquile di sogni che volano sul mare.
Noi restiamo a continuare il viaggio dai nostri villaggi di frontiera aspettando che passino lenti i treni per Tozeur, fingendo per un istante la voglia di vivere a un’altra velocità, anche se le strade somigliano a praterie percorse da furbi contrabbandieri macedoni.
Continueremo a danzare con lui e i suoi dervisci tourneur che girano, girano, girano…
Ad un tratto, sentendo un accordo dissonante, lui verrà a cercarci, e sarà vivo al nostro fianco confortandoci per i perfetti e inutili buffoni che governano; “non cambierà, non cambierà, sì che cambierà, vedrai che cambierà…” per contemplare il cielo e i fiori insieme nonostante il presente e il futuro elettrico con la forza per vincere la difficoltà di trovare l’alba dentro l’imbrunire….
Grazie, Franco, luce che illumina i pensieri neri.

Marisa Scopello 




POLITICAMENTE CORRETTO OVVERO IPOCRITA

La parola è importante. L’uomo non si rede conto di quale privilegio rappresenti per la sua razza. Non serve solo a comunicare. Per far questo ogni specie ha il suo linguaggio che soddisfa pienamente allo scopo, ma la parola ha qualcosa di più, perché riesce a interpretare l’arte, la scienza, va ben oltre la semplice comunicazione fra individuo e individuo per trasmettere necessità fondamentali. Insomma, riesce a interpretare il pensiero o il sentimento che la produce. Ci riesce talmente bene che è nato dentro di noi il convincimento che la parola conti più del pensiero o sentimento che sottende. Siamo così arrivati a considerare scorrette o addirittura ingiuriose parole che di per sé non conterrebbero nulla di scorretto o di ingiurioso.

Si è stabilito che tali parole andassero sostituite con altre, il problema è che il significato è rimasto inevitabilmente lo stesso.

La prima parola ad essere considerata sconveniente e offensiva fu “negro”, che fu sostituita con “nero”, poi anche questa parve non troppo corretta e si decise di usare “persona di colore”, indicando però, non si capisce perché, sempre la persona di colore nero, mentre quella di colore bianco restava sempre “bianco” e chi aveva la pelle gialla si definiva “asiatico”. Misteri del “politicamene corretto”.

Ai colori della pelle poi si aggiunsero le caratteristiche fisiche, quelle caratteristiche che, nella vita pratica, sono abitualmente viste come invalidanti semplicemente perché la nostra società non si è ancora sufficientemente evoluta da capire, adeguandosi, che ci sono minoranze che si differenziano dalla maggioranza per alcuni aspetti (quali la capacità di vedere o di camminare o di parlare in modo sciolto) e che quindi si considerano composte da individui di seconda categoria (anche se il politicamente corretto c’impedisce di definirli tali), allora, invece di costruire una società capace di soddisfare le loro necessità così come sa soddisfare quelle della maggioranza standard della specie, cambia la definizione che in passato era stata data nella stupida convinzione che il problema sia risolto, così il “cieco” diventerà un “non vedente”, il “sordo” un “non udente” e così via, col risultato che noi ci sentiremo evoluti mentre la loro vita non sarà cambiata di una virgola.

Ma noi che abbiamo l’handicap di un cervello troppo piccolo come ci dovremmo definire per rispettare il politicamente corretto? “Minorati mentali” probabilmente è scorretto. “Imbecilli”? Basterebbe infatti che si adottassero strutture a misura di tutti, in grado cioè di non escludere chi non risponde alle caratteristiche standard del cosiddetto “homo sapiens”, e non dovremmo più arrampicarci sui canoni ipocriti dell’adeguamento (?!) delle parole, ma, adeguando invece la nostra società e soprattutto il nostro cervello,  potremmo rendere omaggio a una diversità fra individui che non ci mortifica ma ci esalta.

Ecco, la diversità. Quella diversità che, per essere “politicamente corretti” (cioè, diciamolo apertamente, ipocriti), ci ostiniamo a negare e che è invece la più grande ricchezza del genere umano. Guardiamoci intorno: vediamo masse di individui tutti più o meno uguali, davvero non si riesce a distinguere l’uno dall’altro! Questo è positivo? Indica la crescita della nostra razza o non piuttosto il suo abbrutimento? Eppure c’è stato un tempo in cui tutti, specie i giovani, miravano a distinguersi, sì, a essere diversi dalla massa informe, perché, per farsi largo nella vita, occorreva avere una personalità che li rendesse unici, o quantomeno rari. Allora emergeva lo scienziato, lo scrittore, il pittore, lo scultore, il musicista, perché per avere un peso nel mondo occorreva avere qualcosa in più, occorreva essere DIVERSI. Oggi invece la diversità non è più accettata, la si vuole piuttosto appiattire nella banalità, nel comune, così scegliamo parole che non caratterizzino, che non distinguano. Perché? Forse per non ammettere che lungo il suo cammino l’umanità ha perso qualcosa, ha perso quella scintilla che la distingueva dagli altri animali e, seppur non la rendeva migliore, ne faceva una creatura più forte, più potente.

Sì, nel nostro piattume vogliamo appiattire chi ancora è diverso e fiero di esserlo perché consapevole che quella sua diversità, che pure lo costringe a una vita difficile, spesso di lotta, lo rende “persona” in una massa di creature piatte e inevitabilmente scialbe, tanto scialbe da credere che le parole contino più del pensiero che devono trasmettere.

 

 




ECCIDIO DI PASSO GATTA: UNA STRAGE DIMENTICATA

74d04b3e-c299-4fb1-bc70-d86cb223f14dIl 29 maggio Modica ricorderà il grande valore dei suoi concittadini che nel 1921, esattamente cento anni fa, con forza hanno gridato no alla sopraffazione e alla violenza fascista di quegli anni. La scuola di Formazione politica e culturale Virgilio Failla, l’ANPI, la CGIL, in collaborazione col Comune di Modica e due scuole di studi e ricerca storica locali, stanno programmando una serie di appuntamenti per celebrare degnamente questo momento di Memoria condivisa, incontri che si terranno a Modica venerdì 28 e sabato 29 maggio. Ma c’è da chiarire che in verità solo da qualche anno si è fatto più chiarezza sull’eccidio di Passo gatta a Modica, e una statua commemorativa posta in Piazza S. Giovanni ricorda ogni giorno a tutti questa strage. Ma, volendo fare un po’ il punto, possiamo dire che tutto iniziò esattamente il 9 aprile del 1921 a Ragusa, quando l’on. Vacirca scampò ad un attentato, o meglio dire ad una strage, attuata dai fascisti che spararono ai cittadini, uccidendo tre manifestanti. Sempre nell’aprile 1921, i fascisti assalirono il Municipio di Modica e costrinsero l’amministrazione “rossa” a dimettersi sotto la minaccia delle armi. Negli stessi giorni le amministrazioni di Vittoria, Comiso, Ragusa, Scicli, Pozzallo e Augusta vengono “dimesse” con gli stessi metodi. In quei Comuni il Prefetto di Siracusa indice elezioni suppletive (15 maggio) che si svolgono in un clima d’intimidazione e terrore che ovviamente favoriscono gli armati. Questi sono certamente i principali motivi scatenanti degli eventi di Passo Gatta. Infatti il 29 maggio, ovvero 14 giorni dopo le elezioni, una manifestazione di braccianti e gruppi della sinistra socialista, viene convocata per protestare contro la violenza fascista. Il corteo, che doveva svolgersi nelle vie cittadine, viene spostato a Passo Gatta, luogo scelto anche perché isolato e “militarmente” sfavorevole ai manifestanti, poiché per raggiungere Modica Alta ci si trovava in salita, circondati da diversi punti di osservazione. Ad attendere il corteo squadre di fascisti, armate e appostate sui tetti, a chiudere qualsiasi via di fuga gli uomini delle Forze dell’ordine, Carabinieri, Esercito e Polizia. L’aggressione premeditata si scatena al primo contatto, le carabine fasciste lasciano a terra quattro morti, tutti lavoratori vicini al partito socialista del tempo. Rimangono ferite decine di persone che per paura della repressione evitano di farsi curare presso le strutture sanitarie, infatti nei giorni successivi, a causa delle ferite riportate, muoiono altri tre manifestanti. Le inchieste sull’eccidio non portano a nulla, si conclude infatti che i manifestanti furono uccisi dagli spari di altri manifestanti, assolvendo così i responsabili dell’ordine pubblico e i fascisti da ogni colpa. Questi fatti devono scuoterci, anche a distanza di 100 anni ci devono far riflettere, su molte cose, sul grande valore della Memoria e del ricordo, sull’incredibile spirito di resilienza collettiva della nostra gente. Capire ciò che accadde allora, ci può far comprendere quanto la nostra terra abbia patito durante il regime fascista, e quanto dei semplici lavoratori che hanno sempre lottato per raggiungere i propri obiettivi, possano davvero FARE LA DIFFERENZA, anche a costo della loro stessa vita. Il loro esempio sia sempre un monito forte per tutti i modicani e per tutti quelli che credono nella libertà di costruire il proprio destino con le forze che ognuno di noi possiede, una forza che si alimenta dell’amore per la vita, un’energia così potente che in questo tempo così difficile in molti abbiamo certamente ritrovato!

Graziana Iurato

 




A tavola con gli Dei (a cura di Marisa Scopello)

Chiedo a Zenone se conosca il riso perché finora non ho visto un piatto a base di questo cereale ad Alessandria.
“So che Teofrasto e Aristobolo ne hanno parlato. Qui ce n’è poco e lo si usa come medicamento. Perché me lo chiedi?”
“Perché a me piace moltissimo e, nel mio tempo, se ne fanno piatti regali come il risotto – e gli spiego il procedimento.
“Allora, quando andrai via,  assocerò al tuo nome questa pietanza e nei miei sogni ti evocherò come Marisotta – e sorride con gli occhi.
Siamo vicino al porto e mi viene in mente Ungaretti con “Il porto sepolto”, la famosa lirica del 1916:
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde.
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto.
“Bellissima e struggente. Capisco il senso di queste parole
. – dice Zenone stringendomi la mano.
“Il porto sepolto è l’inconscio dentro di noi, l’insieme di pensieri ed esperienze che spesso rimuoviamo per sopravvivere, ma è pure la città sommersa di Herakleion, vicino ad Alessandria, finita in fondo al mare per un terremoto e coperta dalla sabbia. Una cosa molto affascinante. – e gli stringo la mano anch’io.
“Oggi ti porto a vedere il palazzo dei Tolomei ma non possiamo entrarci dentro, però stasera uscirà dal colonnato una processione: la mummia di un dignitario verrà portata alla sua sepoltura fuori città.”
“Mentre ci avviciniamo al Faro, possiamo chiedere a qualche pescatore un passaggio per me? Ricordi, domani devo ripartire…”
“Se così deve essere, lo faremo. Sto già soffrendo. – ha gli occhi lucidi e guarda da un’altra parte.
All’ombra proiettata dal Faro ci sono dei pescatori che stanno arrostendo le sarde appena uscite dal mare; ci invitano a mangiare con loro i pesci, i gamberi crudi e l’aysh . sham, il pane del sole, così chiamato per la forma rotonda e dorata. Uno dei pescatori mette a disposizione la sua imbarcazione per il mio viaggio verso oriente. Seduta sulla sabbia disegno un cuore per Zenone, non abbiamo parole, proviamo solo timore per la perdita imminente.
“Quando non sarai più qui fisicamente, continuerai ad essere presente nel mio cuore; sarai il mio faro, immenso come questo. Sarai la mia luce. – e traccia nella sabbia il suo cuore dentro al mio.
“Andiamo ad annegare i brutti pensieri nella birra, Marisotta?”
Andiamo. E già l’aria si fa bruna, e si sente risuonare il gong del palazzo che dà il via al rito. Ci sono fiaccole, moltissime e brillanti, ai lati della scalinata, i sacerdoti dalla testa rasata aprono il corteo, il basso e continuo suono delle tube bronzee, le volute dell’incenso profumato si alzano fino al cielo insieme al salmodiare degli officianti. Scendono lentamente i dignitari di corte vestiti di bianco mentre il Faraone con la consorte si mostrano al popolo nella ieratica immobilità da semidei, con ricche vesti colorate e paramenti d’oro. Quando il sarcofago con la mummia si allontana, loro rientrano nel palazzo.
Noi andiamo via e ci fermiamo a cenare insieme per l’ultima volta.
“Stasera mangerai la melokhia, una zuppa di verdura con carne d’anatra a pezzetti, aglio, cipolle, sale, olio e pepe.”
È simile ai nostri spinaci ed è dolce e gustosa. Anche la fresca birra alla melagrana sembra giusta per questo addio. Ma c’è ancora la notte, l’ultima e infinita notte d’amore.




QUANDO UN BENE PUBBLICO DIVENTA “RES NULLIUS”

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Sembra una maledizione, ma in Italia il concetto che il bene pubblico è un bene comune, per tutti e quindi anche mio, che pago le tasse e faccio parte dello Stato, non riesce ad entrare nel codice genetico degli italiani.

Appena una cosa diventa di proprietà pubblica passa immediatamente allo stato di “cosa di nessuno”, quindi vandalizzabile fino al disfacimento definitivo per stupido gioco o per rapinare, sfruttare o rivendere le parti di un qualche valore.

Vediamo tutti i giorni per le strade e nei parchi delle nostre città il disprezzo per la cosa di tutti materializzarsi nei cumuli di immondizia indifferenziata, negli alberi usati come legna da ardere o, se abeti, portati a casa come alberi di Natale, nelle panchine divelte, nelle fontanelle spaccate, negli sfoghi “letterari” dei graffitari che imbrattano ovunque… si potrebbe continuare a lungo.

Sembrerebbe un mero problema di ineducazione popolare o di atavica predisposizione al crimine spicciolo, quindi di un fallimento della scuola e delle famiglie che non riescono o che non sanno come formare il buon cittadino consapevole e partecipe. In parte, purtroppo, questa è la realtà: l’istituzione scolastica troppo spesso non riesce a stare al passo con l’evoluzione della società, e risulta antiquata e noiosa alle nuove generazioni nate con lo smartphone in mano. Le famiglie, anche quando resistono al logorio da stress da lavoro – o dalla sua mancanza! – e alla fine del sentimento che le ha fatte formare, sono in enorme difficoltà nel far comprendere ed accettare ai figli comportamenti virtuosi senza riuscire a darne esempi di utilità pratica in un mondo versato alla venerazione del sopruso e della violenza, reale e virtuale.

Non resta allora che confidare nella solidità delle istituzioni e nei valori civili sanciti dalla carta costituzionale. Ma quando sono proprio le istituzioni a dare segno di squilibrio e a creare stati di sofferenza che vedono inficiare il dettato costituzionale, la sensazione di essere arrivati alla frutta diventa palpabile.

Contro i reati ambientali e gli episodi criminali di vandalismo vediamo lo Stato oscillare tra il garantismo più intransigente, in genere verso i grandi reati commessi dai “potenti”, e la repressione poliziesca più becera, per lo più diretta verso manifestanti in protesta.

La spaventosa crisi della giustizia, recentemente asseverata dall’emersione di dati confermanti pesanti deviazioni morali e materiali di importanti pezzi della magistratura, non aiuta certo la parte migliore della popolazione, che è la maggioranza di essa, ad affermare e a creare un seguito ai principi del buon vivere in condivisione.

Questa discrasia tra l’enunciato enfatico dei valori del bene pubblico in fase di acquisizione e la totale indifferenza e l’abbandono ad acquisizione avvenuta è ben rappresentata nella nostra città da molte situazioni di immobili di prestigio che l’ente Comune ha avuto come lascito testamentario o che ha comprato da privati, a volte dopo anni di trattative esasperanti.

Citiamo solo due casi emblematici: Palazzo Polara e Palazzo de Naro Papa.

Alla sua morte, donna Amalia Polara decise di lasciare al Comune il suo palazzo a fianco del duomo di San Giorgio, completo di arredi e suppellettili, con l’obbligo per l’ente beneficiario di farne sede della pinacoteca comunale.

Lo stato del palazzo era di buona abitabilità e subito fruibile, ma ancora la pinacoteca era da costituire. Per sì e per no, quando il Comune entrò nel possesso effettivo del bene, qualcuno dei notabili di allora pensò bene di chiudercisi dentro per qualche giorno e di asportare quanto di prezioso fosse contenuto al suo interno: a Duccio Belgiorno, che all’epoca era il curatore dei musei e dei beni culturali, fu impedito di redarre un inventario regolare, con numeri e sigle precise per ogni reperto, ma gli fu permesso solo di compilare una lista, priva di codici, degli arredi principali. Fatto sta che la signora Polara pare facesse vita francescana e che non avesse in sua vita mai disposto di argenterie, cristallerie e porcellane… ipotesi assolutamente incredibile.  Che si sia trattato di una messa in salvo di oggetti pregiati di facile asporto, la cui presenza sarebbe stata poco compatibile con l’apertura al pubblico, ovvero di vera e propria appropriazione indebita, nessuno sa che fine abbia fatto la roba sparita.

Per diversi anni il palazzo ospitò mostre di pittura, di fotografie, di abiti antichi e financo di rettili esotici: il pubblico non mancava, anche perché era attirato dal fatto di poter visitare una casa “di cavaleri” perfettamente conservata. Peccato che l’allestimento di alcune di queste mostre sia stato fonte di danneggiamento: telai in tubolare metallico di supporto a faretti per l’illuminazione furono appesi senza troppi complimenti alle volte dipinte e, per ottenere una superficie espositiva più ampia del grande salone del primo piano, furono spostate le appliques a parete ponendole talmente vicine ai tendaggi della finestra che questi presero fuoco a contatto con le lampadine ad incandescenza surriscaldate. Nella stessa sala, l’intonaco dipinto ad olio e decorato da piccoli fiori, rara lavorazione dei primi del ‘900, fu impietosamente sfregiato da chiodi per appendervi quadri.

La manutenzione ordinaria si limitava alla sola pulizia, demandata agli espositori che non sempre provvedevano a ripristinare le condizioni quo ante: i decori realizzati da grandi e bei trionfi di spighe di grano e fogliame di varie essenze, terminata la mostra per la quale erano stati creati, furono lasciati all’interno del palazzo che, mesi dopo, in occasione di un altro evento espositivo, fu trovato in balìa di topi ben pasciuti! L’unico intervento pubblico di manutenzione straordinaria fu il rifacimento del tetto ma, non avendone previsto un buon ancoraggio, il manto di tegole scivolò verso il basso lasciando delle lacune dove l’acqua piovana riprese a fare danni.

Solo l’intervento di Santa Lucia, il 13 dicembre 1990, con un terremoto che colpì buona parte del Val di Noto, fece in modo che anche Modica fosse ammessa a fruire dei finanziamenti posti in essere dalla legge 433/91 per gli interventi di ricostruzione e consolidamento degli edifici. Nel corso di lunghi anni, tormentati da iter burocratici, lentissimi e farraginosi, e da sospensioni dei lavori dovute a imprevisti ritrovamenti archeologici e a contenziosi con la ditta appaltatrice, tutti i lavori di consolidamento furono fatti. Trattandosi di bene storico, tra l’altro ricadente nell’intorno di San Giorgio dichiarato sito UNESCO, la legge 433 ha permesso un finanziamento suppletivo per il restauro e il ripristino: le tirantature e le iniezioni di consolidante avevano lasciato pesanti tracce sia all’interno che all’esterno del palazzo che andavano eliminate. A tutt’oggi questi lavori di finitura, che sono però essenziali per la fruizione pubblica del palazzo con destinazione “casa museo” e pinacoteca, ristagnano per insorte difficoltà economiche dovute alla persistente crisi e alle ulteriori difficoltà interposte all’elargizione dei fondi residui da parte della regione: nel frattempo, gli arredi originali sono stati dispersi, in parte riutilizzati all’interno di altri immobili comunali (teatro Garibaldi, Municipio), mentre altri che erano stati temporaneamente spostati al Castello sono stati rubati. Tutti i lavori di restauro già compiuti e quelli in itinere risultano abbandonati e in via di degrado, e i colombacci hanno ripreso il possesso dei luoghi.

Per Palazzo de Naro Papa la storia parte in modo diverso, ma il finale deprimente è il medesimo.

Quando gli eredi decisero di mettere in vendita il palazzo, il Comune si fece avanti subito, non sappiamo se per esercitare un diritto di prelazione. Iniziarono le trattative, lunghissime per una serie di verifiche, stime e adempimenti vari oltre al faticosissimo reperimento dei fondi necessari. A vendita conclusa, il disinteresse e l’abbandono hanno fatto sì che dalle finestre ormai marcite siano entrate orde di uccelli, il cui guano ha imbrattato ovunque, e che si sia atteso il crollo della copertura del salotto per rifare la copertura con la perdita dell’affresco liberty della volta. Nei locali al pianterreno, semiabbandonati, un privato collezionista raccoglie vecchi apparecchi radio, in un altro per un breve periodo venivano distribuiti i mastelli per la raccolta differenziata, sotto un porticato – i pulera di San Giovanni – guarnito di mascheroni di pietra ma ormai fatiscente e da mesi impraticabile per pericolo di crollo. Nessun intervento finora, neanche di puntellamento: una vasta terrazza superbamente panoramica rischia di venir perduta. Lo sfregio del bene storico è poi sottolineato dalla scelta di consentire la sosta davanti al portico e di allocare i cassonetti della spazzatura nel vano del portone seicentesco.

L’osservazione più immediata da fare su questi casi è che un ente pubblico, quando si accolla l’onere di strutture storiche di valore che vengono donate, deve farlo con la consapevolezza che un bene privato diviene pubblico e che quindi deve avere una destinazione d’uso che ne consenta la pubblica fruizione in piena sicurezza e in almeno decente decoro. Se si è coscienti di essere nell’impossibilità di mantenere in buone condizioni l’immobile, è preferibile rinunciarvi. Similmente, è inutile sottrarre al mercato immobili che, una volta acquistati coi soldi dei contribuenti, vengono abbandonati o sottoutilizzati. Perché non renderli fonte di reddito per l’ente? Conservandone la proprietà si potrebbe trovare la possibilità di formule di affitto a privati che volessero esercitare attività turistiche o culturali, assumendosi la manutenzione ordinaria e pagando un canone proporzionato all’impegno del mantenimento del bene.

Il parco della Villa Cascino è stato dato in uso ad una pizzeria con un contratto che prevede a carico del privato la manutenzione del verde: vedremo se i clienti del pizzaiolo saranno rispettosi di un sito che certo ne avrebbe meritato un uso meno prosaico o se costoro contribuiranno al degrado definitivo della villa.

La terrazza di Palazzo de Naro Papa potrebbe ospitare i ricevimenti di nozze civili celebrate in uno dei saloni da dedicare al rito, che attualmente non ha una sede propria, oppure i tavoli di un ristorante stellato: sarebbe bello se voci umane allegre potessero tornare a far compagnia al solo essere vivente rimasto immutato da decenni nella sua giara nonostante tutto, l’indomito profumatissimo gelsomino di nonna Lucia.

Lavinia de Naro Papa

 




Le ricette della Strega (a cura di Adele Susino)

Risotto al limone

Ingredienti:

500 gr di riso Carnaroli, zeste e succo di un limone e mezzo, 2 porri, 100 gr di feta, 50 gr di parmigiano, q.b. di brodo vegetale, q.b. di olio evo, sale e pepe di Sechuan

Preparazione:

far appassire i porri tagliati finemente in olio, condire con sale e pepe. Tostare nella pentola adatta il riso. Quando è pronto unire i porri, metà zeste e metà succo di limone, aggiungere il brodo fino a coprire e lasciare sobbollire unendo il brodo caldo quando necessario. A cottura ultimata mantecare il risotto con olio, parmigiano e feta, aggiungere brodo e succo di limone e completare con le zeste e con una macinata di pepe. Deve risultare morbido e ben amalgamato. Servire caldo.