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PIANGI, MODICA…

Ieri mattina Modica si è svegliata nel giorno del Santo patrono Pietro non coi consueti colpi di cannone né con lieti rintocchi di campane, ma con una notizia che ci ha lasciati senza fiato: Annamaria Sammito non c’è più.

L’ho conosciuta anni fa, al tempo in cui durante i lavori di consolidamento e ristrutturazione di Palazzo Polara, per puro caso, scavando sotto la roccia che sostiene la parte a monte dell’edificio, trovammo dei cocci di antica ceramica di sicuro interesse archeologico.

Annamaria, giovane archeologa allora direttrice del museo Belgiorno e assessore alla cultura sotto la sindacatura di Antonello Buscema, appena avvertita corse a vedere e, con sua grande sorpresa, si trovò davanti una stratigrafia perfettamente conservata che documentava la storia della città a partire dall’ottavo secolo a.C. fino al terremoto del 1693.

La profonda conoscenza della materia e l’esperienza maturata nelle campagne di scavo le permisero di intuire al volo l’importanza scientifica della scoperta: la gioia e lo stupore che manifestò senza la minima traccia di supponenza, ma anzi con estrema umiltà, me la fece amare immediatamente.

Si diede subito da fare in modo saggio e sommamente esperto nel muoversi nei meandri della burocrazia. L’entusiasmo di Annamaria contagiò tutta la sezione archeologica della Soprintendenza, a partire dal soprintendente Alessandro Ferrara. Grazie a lei, partì l’ispezione affidata al dirigente Saverio Scerra, che fu condotta da un giovane ed appassionato collega, Francesco Cardinale, che si gettò a scavare per oltre un mese, arrivando a trovare il luogo di sepoltura di un’intera famigliola, i cui scheletri erano circondati da piccoli oggetti fittili di corredo che permisero di risalire alla datazione al secondo secolo d.C.

Imparai presto a stimarla per il suo tratto gentile, schietto e diretto, e per la non comune onestà morale ed intellettuale, così difficile da riscontrare nei personaggi che circolano nell’ambito del pubblico servizio, troppo spesso scambiato per esercizio di potere.

Per una serie di contingenze economiche – i soldi per la scienza, la ricerca e la cultura non si trovano mai, quelli per sagre e festini sempre! – i lavori di scavo furono sospesi e lo sono tuttora. Grande fu il dispiacere di Annamaria e di tutta la squadra che vi aveva lavorato nel constatare di non poter proseguire nello studio di una situazione che tanta luce avrebbe potuto portare sulla formazione della città.

Poi il clima politico cambiò, e Palazzo Polara coi sui segreti sparì dagli obiettivi operativi della rinnovata amministrazione comunale.

Con Annamaria ci è capitato di incontrarci ancora, purtroppo raramente, e non sapevo che fosse malata. Ieri mattina è stata una mazzata.

Conoscendone il carattere determinato, immagino che avrà combattuto senza risparmio contro il male che alla fine ha avuto la meglio su di lei, esile ragazza bionda dalla tempra d’acciaio.

In questo tempo maledetto Modica ha perso un’altra delle sue parti migliori, che tanto ancora avrebbe potuto dare come contributo all’elevazione culturale e civile della città, e Dio sa se ce ne sarebbe bisogno!

Annamaria lascia una figlia alle soglie della difficile età dell’adolescenza, e un marito bravo architetto e buon padre, ai quali non posso che augurare di non soccombere al dolore della perdita, ma di continuare a vivere nel suo esempio e a sentirsi privilegiati per il tratto di strada fatto insieme.

Nel mio archivio ho trovato due foto di Annamaria che voglio condividere con chi le ha voluto bene e ha saputo apprezzarla: non sono belle, ma me la ricordano in momenti importanti, a Palazzo Polara e al Palazzo della Cultura, in occasione della mostra archeologica che permise ai modicani di vedere tra i tanti tesori ritrovati a Modica anche gli stupendi vasi greci rinvenuti intatti presso una casa posta alle spalle di Palazzo Polara nel 1925, e deportati a Siracusa.

Cara amica, con te se ne va un pezzo di cuore e una gran fetta di intelligenza e di saggezza di questa città, che sa essere talvolta tanto ingrata. Riposa in pace e, se ti sarà possibile, continua a starci vicino: ne abbiamo bisogno.

P1010284Lavinia P. de Naro Papa

 




La Modica di Enzo Belluardo




IL BABBOMETRO

C’era una volta la Sicilia, isola triangolare come simboleggia la Triscele, che dai tempi dei Normanni risultava divisa in tre distretti territorial-amministrativi: Val Demone, Val di Mazara e Val di Noto.

La leggenda vuole che, per difendere il popolo dai soprusi dei nobili feudatari, sia nata una consorteria segreta che provvedeva a vendicare i torti subiti, ricorrendo senza scrupoli anche alle maniere forti.

Il passo da Società di Mutuo Soccorso a Organizzazione Criminale fu breve: alla fine del regno dei Borbone comparvero i primi processi contro la Maffia, nome che identificava una consorteria criminale che riusciva ad inserirsi in mezzo ad ogni genere di affare e a condizionarlo, mediante estorsioni, ricatti e violenze di ogni tipo. Già allora erano saltate fuori collusioni col ceto politico e con alcuni detentori del potere economico.

Il fenomeno mafioso era inizialmente diffuso nel Val di Mazara, dove potenti famiglie si erano infiltrate nel palermitano, nel trapanese e nell’agrigentino. L’infezione si era poi propagata nel Val Demone, inizialmente nelle aree di Barcellona Pozzo di Gotto e di Milazzo. Catania aveva una sua propria vita criminale, e si narra che una pattuglia di mafiosi palermitani mandati a colonizzare la città etnea nei primi decenni del secolo scorso, sia stata cacciata dai malavitosi catanesi “a fischi e piriti”!

Tuttavia, anche il crimine si evolve, e i vecchi padrini sono stati cancellati assieme agli antichi codici d’onore che, se pur eticamente assai discutibili, almeno tutelavano donne e bambini.

La criminalità organizzata ha preso piede anche nel Val di Noto, scivolando da Catania verso il siracusano e insinuandosi dal gelese fino al vittoriese: l’unica provincia rimasta babba è quella di Ragusa dove, ad eccezione di Vittoria, il numero dei morti ammazzati è vergognosamente basso. In realtà alla mafia fa comodo avere un posto “tranquillo” dove poter investire, movimentare e riciclare soldi sporchi senza eccessive ingerenze delle forze dell’ordine e della magistratura.

Di questa realtà falsamente babba Modica è il centro d’elezione: qui solo qualche furto, qualche rissa il sabato sera, un po’ di piccolo spaccio… altro non è permesso!

I modicani, nell’inerzia dovuta all’accettazione di un modus vivendi opaco e rassegnato ad onta del vanto dei passati splendori della Contea “regnum in regno”, si lamentano molto e sui social network spingono talvolta il proprio sdegno fino all’uso della violenza verbale più becera, ma tutto finisce lì.

Dopo l’offesa alla storia perpetrata col falso del Palio della Contea, dopo le celebrazioni della casa natale di Salvatore Quasimodo, dove il vate non mise mai piede, dopo la farsa del cioccolato IGP coronata dalla turpe faccenda che ha avvolto di miasmi la riapertura del Museo delle arti e tradizioni popolari al Palazzo dei Mercedari, ora a suscitare le lamentazioni sono le strisce blu dei parcheggi a pagamento.

L’operazione, forse scientemente, è stata condotta nel segno della sopraffazione più efferata, degna dello sceriffo di Nottingham.

Seguendo la prassi abbatiana del massimo scruscio mediatico celebrativo e della massima oscurità operativa, la gara d’appalto per l’assegnazione al privato della gestione delle aree di sosta a pagamento ha comportato l’accettazione delle clausole dettate dalle società vincitrici in temporanea associazione, la messinese NAM 3 s,r,l, e la catanese ELICAR PARKING s.r.l., senza che nulla ne sia trapelato dalle segrete stanze.

Dopo la comparsa di misteriose colonnette per lungo tempo intrusciate di nera plastica, passato un lungo periodo durante il quale era stata abolita la sosta a pagamento in onore del Covid19, poi reintrodotta dal 17 febbraio 2021 fino al 7 maggio e nuovamente sospesa fino al 23 maggio u.s., il 24 maggio i modicani hanno trovato nuove strisce blu comparse nottetempo che hanno occupato tutte le zone già precedentemente a pagamento e gran parte di quelle libere. In quella data fatidica non fu il Piave a mormorare, furono i modicani.

Oltre all’invasione di quasi tutto il poco spazio disponibile per il parcheggio gratuito senza il rispetto della proporzionalità prescritta per legge, dell’attivazione del parcheggio multipiano di Via Medaglie d’Oro e del servizio di navette promesso non c’è traccia.

Disvelati i parchimetri – che però adesso si chiamano parcometri, che è più moderno – l’uso di questi aggeggi super tecnologici per molti utenti si è rivelato complicato: le norme d’uso scritte in caratteri molto piccoli, l’obbligo di inserire il numero di targa che non tutti ricordano a memoria, le modalità di pagamento con bancomat, app da scaricare sullo smartphone o monete, ma la macchinetta non dà il resto. All’inizio, non si capiva neanche quanto costasse sostare.

Dal 24 maggio per i residenti del centro storico e per chi lavora in zona è cominciato l’inferno, visto che non erano stati previsti abbonamenti. La solerzia con cui gli addetti alla sorveglianza appioppavano la sanzione anche a coloro che, lasciata l’auto, erano alle prese col parcometro si è rivelata ancor più indigeribile ed inumana quando ha infierito contro i disabili.

Il mugugno popolare è riuscito a far ricomparire qualche zona bianca, è ricomparsa la tolleranza di dieci minuti – il tempo di trovare e attivare il parcometro -, i disabili possono sostare se gli stalli a loro dedicati sono occupati.

È stata introdotta la modalità abbonamento, ma con tariffe vergognosamente esose, poi ritrattate.

Ogni giorno si assiste ad una qualche modifica del servizio. In base alle proteste via internet ed anche a quelle in presenza, con qualche rischio per gli operatori-sgherri, si dà un colpo al cerchio per attenuare il malcontento.

Però poi c’è il colpo alla botte: in certe zone è stata soppressa la pausa dalle 13,30 alle 15,30 che per i residenti è un colpo basso e, per la gioia dei turisti e dei ristoratori, a Marina il costo dell’ora è salito ad un euro. Ora è possibile scegliere di stazionare anche solo per 20 minuti oltre che per l’ora o la mezz’ora – i cui costi sono aumentati e sono i più cari della provincia! – ma, in compenso, l’app non funziona granché e molte persone sono state multate mentre cercavano di sbloccarla!

Nell’illusione che la crisi dovuta alla pandemia sia finita, chi è nella posizione di mungere il cittadino automobilista lo fa, senza scrupoli. Oltre a questa fastidiosa storia delle strisce blu, il costo dei carburanti alla pompa è salito parecchio non appena si è manifestato un nuovo apprezzamento del barile. Si può capire che i gestori dei parcheggi vogliano rientrare al più presto dalle spese, e che i petrolieri desiderano rifarsi delle perdite dovute ai periodi di lockdown, ma la gente comune è ancora sideralmente lontana dalla risalita economica, mica tutti fortunati come Formigoni!

La sensazione è che, visto il default prossimo venturo delle finanze comunali, si sia cercato di correre ai ripari dismettendo la partecipata Multiservizi, offrendo su un vassoio d’argento oneri e onori al gestore privato che, essendo un gestore professionista, tira al guadagno senza guardare in faccia nessuno.

La prevedibile protesta popolare dovuta alle modalità di questa delega al privato, cozza con l’annunciata voglia di correre per le prossime elezioni regionali da parte del sindaco, pronto a lasciare Modica al suo destino.

Tuttavia, non essendo chiare le condizioni contrattuali visto che assistiamo ogni giorno a vistosi cambiamenti di rotta, viene da pensare che il non perseguire l’appaltatore del servizio per le palesi inadempienze sia il frutto proibito di uno scambio: io ti lascio in pace ma tu aiutami a smorzare il malcontento…

In pratica la città si trova in regime di guerriglia, con ritirate e scaramucce continue.

In sostanza il parcometro è diventato un misuratore della babbasuneria dei modicani… che, frenando qualche sporadico conato di vomito, tutto si ammuccano!

Usque tandem?

Kazzandra

 

 




SANITÀ. DISCESA AGLI INFERI

Quando, anni fa, si cominciò a parlare di privatizzare la sanità, pur provenendo la proposta dalla destra, anche molte persone che non avevano mai condiviso quella posizione pensarono potesse trattarsi di un’idea sensata. Ingenuamente credevano che, se l’imprenditore privato faceva crescere la propria azienda sia nel fatturato che nei risultati, avrebbe saputo farlo anche nel settore della sanità che avrebbe dovuto occuparsi di tutti noi. Se un Berlusconi, si pensava, è riuscito a fare del Milan una stella di prima grandezza, qualcuno come lui riuscirà a fare altrettanto per la nostra salute. Che coglioni siamo stati! Già, perché le Aziende, trovandosi ad essere sovvenzionate dallo Stato che, per dirla in modo spiccio, aveva trasmesso loro la scelta della gestione ma era, in ogni caso, responsabile per garantire ai cittadini quel diritto alla salute che, si dice, in Italia dovrebbe esistere ancora, pensarono bene di trarre dalla situazione il massimo del profitto trascurando necessariamente altre cose pur di fondamentale importanza.

Si verificò una situazione strana: da un lato ci furono delle Aziende che cercarono di mantenere un certo decoro e in gran parte ci riuscirono, anche se, all’interno delle stesse, alcune strutture brillavano per modernità, servizi, attrezzature, mentre altre stentavano a prestare il servizio che sarebbe stato loro richiesto. Si trattava, ovviamente, di aziende situate in regioni ricche e, più di altre, sotto gli occhi dell’opinione pubblica italiana e straniera. In altre zone della Penisola (e, ci dispiace dirlo, dobbiamo riferirci soprattutto al Sud) prevalse il concetto del dove posso arraffare arraffo, del resto chi se ne frega. Se poi capitava che qualcuno, stranamente coscienzioso, riusciva a rendere l’Azienda che gestiva più ricca e al contempo più efficiente, allora si scatenava regolarmente l’invidia di qualcun altro che riusciva ad allontanarlo dalla sua posizione, per lo più con accuse false di qualcosa di infamante o giù di lì. Una prassi tutta italiana!

Ecco dunque che si cominciarono a vedere ospedali strutturalmente ben attrezzati per l’epoca in cui erano stati costruiti sbriciolarsi e degradarsi sotto gli occhi di medici e pazienti. Ecco dunque i medici, quelli bravi, quelli dediti con passione al proprio lavoro, quelli che, in un modo o nell’altro, s’impegnano davvero per curare al meglio i pazienti loro affidati, arrabattarsi tra mille difficoltà riuscendo anche ad ottenere il risultato desiderato. Di questi medici in Italia ce ne sono tanti, l’abbiamo visto con chiarezza durante questa pandemia nella quale hanno dato veramente tutto e anche di più di quel che era loro possibile, perché gli italiani sono strana gente, capace di sacrifici ai limiti dell’eroismo come anche di sputar fuori l’egocentrismo più crudele e pericoloso. No, non conosciamo mezze misure noi!

Per esser concreti, a titolo d’esempio, possiamo citare una struttura nata tanti anni fa e che ancor oggi ottiene ottimi risultati grazie alle capacità dei medici che vi operano, solo che ne è stata aperta con forte suono di grancassa un’altra nella stessa zona dotata, ovviamente, di attrezzature più moderne ed efficienti, però la vecchia struttura è rimasta operante e continua svolgere il suo lavoro esattamente come prima; sempre più faticosamente però, perché, ad esempio, pur dovendo effettuare spesso tac con contrasto, non se lo può permettere perché… nel personale non c’è più l’anestesista che le possa fare. Ridicolo o tragico?

Quanto si è detto a proposito dei medici vale sicuramente anche per gli infermieri, perché per loro la spinta è la stessa: curare i malati.

Tutto questo già registra una situazione sbagliata, perché non può e non deve esistere una categoria che si sacrifica (medici, infermieri) e un’altra che sui suoi sacrifici si arricchisce sempre di più, non almeno da quando si dice che nel mondo occidentale sia stata abolita la schiavitù.

Se questa situazione andava avanti già da anni, l’emergenza Covid l’ha evidenziata in maniera tragica, mandando in campo allo sbaraglio anche medici che avrebbero fatto meglio a restarsene a casa a godersi la pensione e infermieri alle prime armi, spesso pieni di buona volontà ma, non per colpa loro, impreparati. Chi ci rimette, sempre e comunque? Il paziente, ovvio.

I tre pilastri sui quali si fonda una nazione moderna sono la scuola, la giustizia e la sanità. Se questi sono solidi, inevitabilmente questa nazione sarà ricca e potente e la sua voce avrà un grande valore nel mondo. In Italia invece,  per l’avidità di alcuni, sono miseramente crollati da un pezzo come il ponte di Genova, è per questo che, dopo essere stati la culla della civiltà, oggi siamo diventati un paese povero e zimbello di tutti.




Lettera al Direttore

Spett.le Redazione,

L’emergenza Covid, seppur sempre presente, grazie alla campagna vaccinale finalmente a pieno regime sembra correre, e l’incertezza è d’obbligo, verso  un lento ritorno alla normalità, seppur con le consuete prescrizioni atte ad evitare nuovi focolai.

Anche i viaggi, finalmente, almeno tra i paesi europei, sembrano ripartire all’insegna della maggiore sicurezza possibile. Per chi, per motivi di lavoro, salute o familiari, ha assoluta necessità di spostarsi (ma anche per svago), questa è un’ulteriore ottima notizia.

Purché tutto ciò avvenga nella massima sicurezza!

Purché la tutela della salute collettiva avvenga nel rispetto delle normative e, soprattutto, all’insegna dei controlli capillari.

Ed è proprio per questo che scrivo quanto mi è accaduto appena pochi giorni fa. 

Recatomi a Siviglia, per motivi personali, ho provveduto a verificare tutte le azioni necessarie per partire in piena sicurezza, con relative disposizioni in materia previste sia dalla Spagna che dall’Italia. 

Per la Spagna: informazioni dettagliate sul sito spagnolo di riferimento, con relativa registrazione e accettazione del certificato di vaccinazione italiano, ancorché non internazionale. 

Il tutto da completare non prima di 48 ore dalla partenza. All’arrivo a Siviglia, controllo individuale della documentazione, della temperatura e verifica del codice Qr per poter uscire dal Gate.

Tutto, insomma, secondo le disposizioni vigenti. Con relativi controlli.

Per l’Italia: 

Registrazione preventiva e compilazione di un questionario con codice Qr, con necessità (chissà mai perché, di avere al seguito copia cartacea. In più, in ottemperanza a precisa disposizione di legge, tampone rapido in doppia lingua, eseguito in laboratorio autorizzato nelle 48 ore antecedenti il rientro.  Ovviamente, a pagamento (45 euro a persona). 

Però… sia in Aeroporto da Siviglia, sia a Catania, zero controlli.

Zero!

Quindi, alcune considerazioni, data l’assurdità della situazione.

Il paese che mi ha vaccinato, non riconosce l’azione sanitaria eseguita dalle sue strutture pubbliche, e mi chiede di compilare un  questionario, con un nuovo Qr Code. Perché? Non si fida della propria struttura sanitaria? O il solito inutile appesantimento burocratico di qualche genio che non ha di meglio da fare? E perché, invece, la Spagna, che non ne avrebbe motivo, accetta il certificato, sic et simpliciter? 

Ma soprattutto: nessuna verifica, e ribadisco nessuna, sui passeggeri in arrivo da altri paesi. E che, a questo punto, potrebbero non essere la Spagna ma qualunque altro paese del mondo.

Altra piccola considerazione: capisco la necessità di prevenire l’eventuale possibilità che possa essermi contagiato in Spagna e, quindi, chiedere il tampone al ritorno in Italia. E non contesto queste e altre misure preventive, anzi le approvo e le sostengo. Ma, mi chiedo, a cosa serva se un paese, come l’Italia, poi, non svolge la propria azione fino in fondo, attivando i controlli necessari.

E’ questo, mi chiedo, il modo migliore per tutelare la salute collettiva? Costringere le persone a una serie, a volte inutile, di prescrizioni… e poi credere loro sulla parola? Se non fosse la realtà, sembrerebbe una barzelletta mal raccontata e peggio riuscita. 

E la preoccupazione per le nuove varianti, come quella Delta? E l’estate ormai alle porte? Così affrontiamo quello che, ci auguriamo a livello economico, sarà un vero e proprio esodo di turisti verso le nostre coste? Se così, altro che precauzioni e sacrifici, stiamo ballando sul Titanic prima dello scontro. E la musica non è nemmeno delle migliori…

Cosa ci aspetta ancora? 

Giovanni  Tumino

Medico Veterinario

 

 




ANTICHI BRONZI A MODICA

18 giugno 2021. Bisognerà segnare in rosso questa data nel libro della memoria modicana recente: il ritorno a eventi finalmente in presenza e l’inaugurazione della mostra archeologica nel Museo civico “F. L. Belgiorno” dal titolo “Statue bronzee a Modica”. Non si tratta della normale esposizione museale, c’è ben altro: un vero e proprio progetto sviluppato dall’Associazione Culturale Herakles che sintetizza contesto storico dei ritrovamenti, avanza ipotesi di identità e fa rivivere i frammenti con la tecnica del video mapping in un’esperienza sensoriale immersiva di grande suggestione.
Dopo l’assessore Monisteri, l’introduzione (curata da Angela Maria Manenti, Giovanni Di Stefano, Domenico Buzzone, personalità di spicco nell’ambito archeologico) parte dall’accurata testimonianza di Paolo Orsi il quale, nel 1915, descrive due frammenti bronzei rinvenuti nell’’alveo del torrente di Modica, parte di una statua equestre di grandi dimensioni, lo zoccolo posteriore sinistro e il fiocco della coda, di fattura ellenistico-romana. Molte le ipotesi, tutte affascinanti, tra cui spicca quella avanzata da Saverio Scerra: Alessandro Magno in groppa a Bucefalo, opera di Lisippo, facente parte del cosiddetto “gruppo del Granico” descritto da Plinio che lo vide a Roma e composto da venticinque statue equestri celebranti gli eroi della battaglia omonima del 334 a.C.
Come tali frammenti siano finiti nel torrente modicano non è dato saperlo, ma ora sono qui e ci raccontano di un passato lontano, di un cavallo di bronzo impennato prima di lanciarsi al galoppo verso orizzonti di gloria.

Marisa Scopello




A tavola con gli Dei (a cura di Marisa Scopello)

Nell’alba del terzo giorno si distinguono monti immersi nella foschia azzurrognola appena rischiarata dall’incerto lucore del sole. Kabi mi dice che ci stiamo avvicinando alla Tetrapolis, una grande città costruita in quattro quartieri da Antioco: “Si chiama Antiochia, si estende lungo le sponde del fiume Oronte e sull’isola posta al centro del fiume, collegata da ponti lignei. Ci sono spesso terremoti che mettono a rischio la stabilità dei suoi monumenti. Il caldo oggi sarà intenso come fa presagire la foschia che assorbe la luce nascente.”
Non posso non pensare alla bella immagine dantesca de “la concubina di Titone antico” che “s’imbianca al balco d’Oriente”: Sembra proprio che Eos si stia dando in viso la biacca affacciandosi al balcone del monte Silpio. Siamo in Siria, l’antica terra di Assiri e Fenici, terra di conflitti da tempo immemore, di contraddizioni religiose e brame egemoniche, politeismo e monoteismo. Qui convivono greci e giudei con i loro templi e le loro sinagoghe. Qui giungono le carovane che da Palmyra, la Sposa del deserto, portano mercanzie verso Roma e l’Occidente.
La navigazione per mare cede il posto alle barche dal fondo piatto per raggiungere la città attraverso il fiume. Vedo l’Acropoli al di sopra delle possenti mura di difesa in arenaria gialla. Entriamo in città e cerchiamo un posto per pranzare. Molte cose saranno simili a Creta e ad Alessandria perché il mare, che sembra dividere, in realtà unisce uomini e consuetudini. Infatti nel portico scelto da Kabi vedo il tannur per la cottura del pane e gli spiedi di agnello sfrigolare nel braciere. C’è però molto altro: l’hummus (crema di ceci e sesamo, le polpettine di fave secche simili ai falafel; soprattutto il riso, tanto riso finalmente, cotto col montone, yogurt e tante spezie. Altra sorpresa: da bere c’è il the aromatizzato con la menta, e mi sento a casa.
“Devi assaggiare un’altra bevanda che si trova solo qui; è scura, aromatica ed energetica. Viene fatta con grossi semi scuri tostati e macinati finissimi. Mi pare si chiami kawa.”
“Oh, ma è il caffè! Lo conosco molto bene.”
E scopro che mi è mancato molto durante le precedenti tappe del mio viaggio.
Mentre prendo il secondo caffè penso alla storia di questa città e del territorio circostante: guerre di religione, cupidigia dei popoli dominanti. Il risultato è che a farne le spese è sempre la gente comune, i più deboli, quelli che tentano di sopravvivere ad ogni avversità tra macerie polverose e assordanti deflagrazioni, le insignificanti formiche testarde in continuo viavai.
In questo momento Antiochia è una città della Siria con l’apparente pace tra l’identità giudaica ed ellenistica, poi altri popoli e altre culture si stratificheranno cambiandone i connotati come è giusto che sia nella storia fino alle rovine silenziose senza voci umane. Con questa consapevolezza guardo l’acqua dell’Oronte che scorre verso il mare, una metafora del “panta rei” di lingue, scritture, etnie di tutti i luoghi del nostro pianeta, qui in modo quasi parossistico. Sarà stato il caffè a suscitare questa riflessione? Forse sì, forse no. Mentre il giorno finisce mi avvio con Kabi verso la barca che ci riporta al mare.

 




Ma… dove si passa?…




Le ricette della Strega (a cura di Adele Susino)

Insalata di baccalà e patate al profumo di menta

Ingredienti:

1 kg di patate a pasta gialla, 1 kg di baccalà dissalato, 1 mazzetto di rucola, 2 peperoni rossi arrostiti, 1/2 tazza di olive verdi schiacciate e snocciolate, 1 cucchiaio di capperi, 15 pomodorini datterino, 2 cucchiai di semi misti tostati (girasole, zucca, lino), 2 cucchiai di mandorle tostate e tritate, 1mazzetto di menta fresca, 1 spicchio d’aglio, q.b. di olio evo, q.b. di succo di limone, q.b. di sale

Preparazione:

Cuocere, per circa 10 minuti, a vapore in acqua aromatizzata con qualche rametto di menta e fette di limone il baccalà, farlo intiepidire. Cuocere a vapore anche le patate. Arrostire i peperoni, spellarli, tagliarli a filetti e condirli con olio, sale, succo di limone e un’idea di aglio. Tagliare la rucola e condirla con olio e poco sale e unire i pomodorini tagliati a fettine Preparare un’emulsione con succo di limone, olio, aglio tritato, menta e olio, sbattere fin quando la salsa inizia a ispessirsi. Spellare e togliere  le lische al baccalà e sfaldarlo, tagliare le patate a cubetti, tritate grossolanamente le olive, l’aglio e i capperi in una capiente insalatiera, unire tutti gli  ingredienti, condire con la salsa emulsionata, mescolare bene, aggiustare i condimenti e disporre in un piatto da portata guarnendo con foglioline di menta. Prima di salare gli ingredienti, conviene controllare la sapidità del baccalà e regolarsi di conseguenza, l’aglio se non piace si può omettere.

 

 

 

 




VIVERE MEGLIO SOLO DANDO IL MEGLIO DI NOI

Giovedì 17 giugno è stata giornata di mercato attorno alle prime casette popolari e nella piazzetta che circoscrive il nuovo campo sportivo della Modica Sacro Cuore.

Prima però di affrontare l’argomento, desidero fare un passo indietro e guardare a quello che è successo il giorno precedente, il 16 giugno, quando la città si è svegliata e ha trovato gli scalini del Duomo di San Giorgio (ma anche quelli di San Pietro) pieni di bottiglie di birra, acqua e altro e sacchetti alimentari vuoti.

Le prime foto postate su Facebook hanno fatto tanto clamore da finire poi su ogni testata giornalistica online locale e dei dintorni. Certo una brutta immagine di noi che ha colpito tutti ma, fatto più grave, sono stati i titoli, i post condivisi e le parole di disprezzo spese nei confronti dei giovani da parte di chi informava e poi da chi leggeva. Già, perché la colpa di tutto ciò, è stata addossata tutta ai maturandi, come se quella “notte prima degli esami” fosse servita solo per buttare spazzatura davanti alle chiese. Disprezzati e umiliati a più non posso, una vergogna, anche perché se qualcuno ha compiuto questo scempio, tanti altri giovani no!

E allora, tornando al discorso del mercato, ogni giovedì riempie la piazzetta e le strade di bancarelle ortofrutticole,  agroalimentari, di dolci, abbigliamento e chincaglierie ed è festa per chi abita lì vicino ma anche per chi viene da altre contrade modicane. E’ una festa che accomuna tutti, dai lavoratori che si alzano la mattina alle quattro per fare strada da lontano coi loro furgoni carichi e poi con le bancarelle allestite prima dell’arrivo delle massaie, dei giovani, dei turisti, delle coppie, dei bambini.

Mi spiego:

Alle 13,30 tutto è compiuto al mercato, chi ha venduto è sulla strada del ritorno per casa, chi ha acquistato sta già pranzando o ha cucinato, chi ha passeggiato e ha incontrato gente divertendosi è appagato. Ma anche lì, dopo che tutti vanno via, rimangono i resti della battaglia giornaliera dei lavoratori e dei visitatori. Nessuno osa accusarli per il lavoro svolto e per quello lasciato ad altri, sebbene se ne potesse lasciare di meno. Non sono giovani maturandi, sono lavoratori e gente normale, figli, padri o madri di famiglia e nessuno si permetterebbe mai di disprezzarli per quello che lasciano in giro, quasi fin dentro le case vicine.

Forse mancano i servizi a portata di mano per ogni cosa, mancano regole di vivibilità, mancano controlli semplici ma appropriati, manchiamo noi, noi tutti che stiamo diventando sempre più incivili e che siamo diventati negli ultimi tempi apatici e asociali e non sappiamo rispettarci l’un l’altro col buon esempio. Certo è che guardando la scalinata di San Giorgio e poi il mercato, non so voi ma io non mi permetterei mai di giudicare né gli uni né gli altri, l’unica che posso giudicare è me stessa e questo sempre se mi conosco bene e non mi nascondo dietro alle ingiurie rivolte ad altri.

Un’ultima cosa: sono passata con la mia macchina sulla strada che passa dal mercato, lo stesso giorno, verso le 15,00, era già quasi tutto pulito (e penso che anche le scalinate siano state pulite presto come ogni strada che attraversiamo e senza rispetto sporchiamo), c’erano tre, anche quattro camioncini insieme a uomini veri, operatori ecologici gentilissimi che non hanno voluto essere fotografati per rispetto, stavano quasi per finire il loro lavoro di raccolta urbana ed erano felici del proprio lavoro, gliel’ho letto negli occhi soddisfatti.

Lamentarsi non serve a niente, soprattutto disprezzare, aizzare o incolpare non serve a niente, quello che serve è dare col proprio modo di essere e col proprio lavoro il buon esempio, senza aria di superiorità alcuna, semplicemente facendo tutto con onestà e rispettando anche chi sbaglia ma, gentilmente, farglielo notare. I giovani, i lavoratori, i visitatori, non sono tutti uguali e non hanno colpe, sono solo lo specchio del buono e del marcio che è dentro ognuno di noi. Migliorarci reciprocamente per vivere meglio, questo sì, con tanta buona volontà, lo possiamo ancora fare, semplicemente dando il meglio di noi.

Sofia Ruta