Entrambi hanno interpretato la contemporaneità, entrambi hanno compreso il potere mediatico delle immagini. Parliamo di Andy Warhol e di Banksy, per la prima volta messi a confronto nella mostra allestita a Catania al Palazzo della Cultura e curata da Sabina Gregori e Giuseppe Stagnitta, col patrocinio dell’Assessorato alla Cultura (fino al 2 giugno). Sono andata a visitarla infiltrandomi in un bus stracolmo di alunni vocianti.
Chi non conosce il volto spiritato di Andy Warhol, la chioma ispida e platinata, gli occhiali scuri a nascondere un’intima insicurezza? Statunitense, classe 1924, raggiunge l’apice del successo negli anni ’60, in un’America scossa dalla contestazione giovanile, dalla guerra del Vietnam, dalle lotte per i diritti civili, ma soprattutto determinata a realizzare il sogno americano attraverso la corsa ai consumi. Warhol si rivolge ad una società di massa priva di volto e di identità, affamata di beni di produzione. Anche l’opera viene assimilata ad un oggetto di consumo. I suoi soggetti si ispirano alla pubblicità, alla televisione, al fumetto. Tutto è posto sullo stesso piano come in uno sterminato supermercato: la scatola di detersivo, la zuppa Campbell, gli hamburger, la Coca Cola, le immagini di Marilyn Monroe, di Mao Tze Tung, di Elvis Presley, ma non risparmia allo spettatore neanche l’incidente mortale, la sedia elettrica, il fungo atomico. Per l’artista della Pop Art non è interessante l’oggetto in sé, ma la sua veicolazione come immagine pubblicitaria, a cui si ispira anche nelle tecniche. Infatti le immagini serigrafate o retinate sono reiterate, semplificate, bidimensionali, manipolate con colori violenti che catturano l’osservatore. E il successo arriva e diventa esplosivo, globale, fino ad approdare ai riconoscimenti della Biennale del ’64.
Banksy è inglese, nasce mezzo secolo dopo e inizia come writer e muralista. Oggi è uno dei maggiori rappresentanti della street art. Le sue opere sono apparse su strade, muri e ponti di tutto il mondo, esposte nello spazio urbano, a costo zero e fruibili da tutti. Anche lui sperimenta tecniche di riproducibilità dell’opera, dai graffiti agli stencil, sottolineando la non-unicità dell’opera d’arte e il suo possibile deperimento. Warhol però, pur raccogliendo l’eredità del dadaismo, ne rifiuta il piglio rivoluzionario. La sua è la manifestazione di un disagio che non pretende di essere una critica alla società, bensì una presa d’atto dell’ omologazione in atto e dell’impossibilità di un cambiamento.
Al contrario Banksy, che pure prende spunto da Warhol (ricordiamo il ritratto di Churchill e della regina Elisabetta), toccherà temi scomodi come la politica, la guerra, la povertà, i diritti umani; la sua è una satira diretta e pungente, che può colpire lo spettatore come uno schiaffo o entrargli nel cuore e nella coscienza. Nel rivoltoso che lancia un mazzo di fiori al posto di una granata, nei poliziotti che usano delle banane come fossero pistole, è presente una sfrontata ironia. In “Girl Mapalm”, la famosa bambina che corre ustionata dal napalm durante la guerra del Vietnam viene presa per mano da Topolino e Ronald McDonald. L’opera non ci lascia indifferenti: subiamo uno shock visivo davanti ad un accostamento che ci sembra quantomeno irrispettoso, ma alla fine dobbiamo ammettere che proprio questo , anziché ridicolizzare, potenzia i i crudi “effetti collaterali” della guerra, rendendoli ancor più insensati e tragici rispetto all’immagine di spensieratezza che ci rimandano i due personaggi: un sorprendente manifesto delle contraddizioni del modello consumistico e capitalista . L’elenco degli accostamenti surreali non si ferma qui: i poliziotti sono spesso presi di mira. Qui ne abbiamo due (Kissing coppers) che si baciano con passione. Il binomio repressione-trasgressione si rivela una clamorosa presa di posizione contro l’omofobia. “Balloon girl”, ormai celebre in tutto il mondo, viene mostrato nell’atto di afferrare – o perdere – un palloncino rosso a forma di cuore, simbolo di innocenza e di speranza. Quest’opera è legata a un fatto singolare. Quando fu venduta all’asta nel 2018 per più di un milione di dollari, una volta battuto il martello per sancire l’acquisto, tramite un dispositivo telecomandato dallo stesso Banksy, la stampa fu triturata, trasformandosi in “L’amore nel cestino”. Era la prima volta che un’opera si faceva – e disfaceva – all’interno di un’asta. Qual è il senso di questa provocazione? Forse il messaggio del disfacimento dell’amore e della speranza? Oppure un’ulteriore, teatrale conferma che il destino di un’opera non è l’eterna contemplazione, ma la sua possibile distruzione? Ai posteri l’ardua sentenza. E c’è un’altra cosa che aleggia attorno alle opere di Banksy: il fascino del mistero. Chi è Banksy? Non lo sappiamo. Incredibilmente, da decenni si cerca inutilmente di individuare la sua identità. Nessuno l’ha mai visto, non ha mai rilasciato un’intervista pubblica né firmato una sua opera. Partito come uno dei tanti muralisti armati di spray che agiscono nell’ombra vandalizzando i muri ai margini della legge, Banksy ha trasformato progressivamente questa sua condizione in una scelta lucida che ha contribuito non poco a determinare la sua popolarità. Ed ecco che il cerchio si chiude e i due artisti ci appaiono come facce della stessa medaglia. Warhol è l’artista più fotografato del mondo, Banksy agisce nell’anonimato. Il primo ha trasformato il suo aspetto per diventare un personaggio e per fare di se stesso un’opera da consumare, il secondo non ha mai posato per una foto e ha utilizzato il mistero sulla sua identità per creare un mito. Così differenti, in realtà dialogano tra loro: geniali, anticonformisti, irriverenti, sperimentatori di tecniche inedite, entrambi sono stati esperti di comunicazione ed hanno segnato un’epoca. Alla frase di Warhol “Nel futuro ciascuno sarà famoso per quindici minuti“ Banksy rispondeva “Ognuno nella vita avrà quindici minuti di anonimato”. Un duello verbale tra due uomini che non si sono mai conosciuti, che hanno vissuto in due porzioni diverse del nostro tempo, ma che, figli del dadaismo storico, rivelano la profonda crisi di una società che ha messo in discussione tutte le certezze, anche il concetto di arte.
Ho osservato i ragazzi in visita alla mostra: in queste opere hanno riconosciuto il loro mondo, con le sue illusioni e le sue contraddizioni, ma anche con la sua tensione verso la libertà dalle convenzioni: hanno osservato, commentato , discusso, confrontato, pensato. La mostra, mi sono detta, ha fatto centro.
Claudia Sudano