“Se la ricchezza non fa la felicità, figuriamoci la povertà”. Orbene, con questa battuta pungente e, diciamo, fulminante, il regista Woody Allen descrive, senza saperlo, uno dei paradossi più famosi tra quelli scoperti dagli economisti negli ultimi lustri.
Questa è la teoria cosiddetta della felicità. Mi spiego meglio: quando confrontiamo il Pil pro-capite di vari Paesi, notiamo che in quelli con un valore più elevato la percentuale di cittadini che si definisce “molto felice” è più elevata.
La cosa, però, si fa più interessante nel momento in cui il reddito cresce oltre una certa soglia: la correlazione positiva tra Pil e felicità tende a svanire.
Poi ulteriori aumenti di reddito determinano, addirittura, una riduzione della felicità.
Questa regolarità empirica – di cui sopra – venne evidenziata intorno alla metà degli anni ’70 del secolo scorso dall’economista Richard Easterlin.
Negli anni successivi diventerà famosa col nome di “paradosso di Easterlin”.
Questa mia fuga nella storia economica ha un preciso senso, come dirò in appresso.
Uno dei meriti di Easterlin è stato quello di avere stimolato la nascita di un nuovo ambito di indagine che si occupa di studiare quelle che sono le determinanti del benessere delle persone, quali aspirazioni, libertà, opportunità e relazioni oltre, naturalmente, al reddito, che Influenzano il senso di soddisfazione che ognuno di noi sperimenta rispetto alla propria vita.
Insomma, per essere chiari, inoltre, l’economia della felicità ha avuto il merito di elaborare nuove metriche e nuove forme valutative del benessere.
Il mio augurio è che queste misure, oggi in maniera sperimentale, verranno utilizzate per valutare gli effetti della politica economica – quella vera e competente – sulla qualità della vita di ogni cittadino.
Oggi conosciamo abbastanza bene i meccanismi che determinano questi risultati?
La politica è in grado di percorrere questa strada?
Certo non è un processo che può dipendere solo dalla scelta pubblica.
Dopo una piccola disgressione nella storia della scienza triste (Thomas Carlyle, nel 1849, definì l’economia come la “scienza triste”), ritorno al quotidiano che tanto ci tormenta.
La pandemia, la guerra in Ucraina, la siccità e la crisi economica stanno mettendo in ginocchio il nostro Paese.
Ora, l’inflazione all’8%, il rincaro dei prezzi su tutti i settori dell’economia e l’aumento dei tassi da parte della BCE da parte della Lagarde stanno impoverendo oltre ogni limite la popolazione italiana.
Il governo si sta dando da fare, certo, ma non con 200 ero una tantum solo a coloro che non superano 12.000 euro lordi annui.
Occorrono riforme strutturali: come la riforma fiscale, mettendo 150-200 euro al mese su salari, stipendi e pensioni. Se non si ha questo coraggio ci aspetterà un autunno mai visto sin d’ora.
Salvatore G. Blasco