Un immenso alveare, più di cinquemila cavità buie incastonate in un paesaggio selvatico e primordiale. Ho l’inquietante sensazione di essere osservata, come se volessero dirmi qualcosa. Le pietre parlano una lingua muta, cariche della storia degli uomini che le abitarono fin dall’antichità. Ho percorso un sentiero accidentato, attraversato da balze rocciose, cespugli spontanei e laghetti, avvolta dal profumo della macchia e dal grido delle cicale, ho risalito il crinale di un altopiano a strapiombo su due stretti canyons percorsi dai fiumi Anapo e Calcinara, che abbracciano l’altura rendendola un’inespugnabile fortezza naturale. Mi trovo di fronte alla testimonianza più scenografica giunta fino a noi dalla civiltà di Pantalica (dall’arabo Buntarigah o dal greco Pantalithon?), fiorita secondo gli storici dal XIII all’VIII secolo a. c. dall’età media del bronzo alla prima età del ferro. Osservo stupita le tombe, situate per lo più lungo pareti scoscese ad un’altezza vertiginosa. E’ difficilmente comprensibile ai miei occhi la fatica immane a cui questi uomini si sottoponevano per scavare le sepolture e deporvi i loro defunti, preservandole dai saccheggi e dalle profanazioni. Ma che cosa – o chi – temevano questi nostri progenitori?
In quell’epoca, secondo Tucidide, la Sicilia orientale subisce una violenta invasione da parte di popolazioni venute dal nord, gli Ausoni, i Morgeti e soprattutto i Siculi, presumibilmente in cerca di territori più sicuri. Che ne è stato dei piccoli insediamenti costieri di Castelluccio e Thapsos, probabilmente di indole pacifica e privi di adeguati strumenti di difesa? Nella storia vige sempre la legge del più forte. Queste popolazioni, incalzate da un nemico inaspettato e feroce, furono costrette ad abbandonare le zone costiere e ad approntare le prime strategie difensive: l’aggregazione – insieme si è più forti -, la ricerca di una posizione inaccessibile, l’organizzazione della comunità secondo una rigida impostazione gerarchica. Pantalica era il luogo ideale, protetto a trecentosessanta gradi se si esclude l’unico accesso alla sella di Eliporto. E’ opinione comune che nel corso di cinque secoli, fino alla colonizzazione greca, gli insediamenti dell’isola si siano stabilizzati con i principali gruppi etnici degli Elimi e dei Sicani ad ovest, dei Siculi ad est. Opinione però troppo schematica, che non tiene conto della complessità dei movimenti migratori e della possibilità che, dopo lo scontro, ci sia stata una mescolanza tra Siculi e Sicani. A giudicare dal numero di scheletri ritrovati nelle tombe, alcune a forno sulla falsariga di quelle castellucciane, molte a pianta quadrata e multiple, la popolazione di Pantalica doveva essere numerosa. Questo dato è interessante perché ci testimonia la nascita di uno dei più antichi fenomeni proto urbani, una sorta di metropoli multietnica dell’antichità.
L’assetto sociale prevede una gerarchia che culmina con la figura del re (anax). Oltre che attraverso le fonti storiche, è possibile confermarlo dall’unica testimonianza non destinata ai defunti giunta fino a noi, il palazzo del re (anactoron), che costituisce il primo esempio di architettura organizzata e funzionale in Sicilia. Lo raggiungo. Sono visibili le fondamenta di otto stanze di cui un disimpegno e un megaron, realizzato in un secondo tempo con enormi massi megalitici riconducibili alle coeve fortificazioni micenee. Immagino la fortezza come doveva apparire tremila anni fa, imponente e superba con la sua mole affacciata sullo strapiombo, simbolo di potenza militare ma anche cuore pulsante di una grossa comunità dotata di diversificazioni sociali e di un’organizzazione complessa. Nell’interno del megaron sono stati trovati frammenti di bronzo e forme di arenaria idonee alla sua fusione. In un’epoca in cui il bronzo era merce rara, la presenza di questi reperti ci conferma il particolare privilegio di cui godeva il re, che riservava a sé e a pochi artigiani i segreti della fusione. Oltre a ciò, cogliamo il senso estetico di questo popolo osservando il lascito di raffinatissime ceramiche a ”translucido rosso“, lavorate al tornio, già influenzate dalla produzione greca ma singolari sia per forma che per dimensioni (Museo P. Orsi).
Tirando le somme, sembra ormai appurato che i Siculi, al loro arrivo in Sicilia, non avessero ancora un’identità culturale, spirituale e linguistica. Forse questa identità nacque lentamente, in parte in seguito alla fusione tra l’elemento italico e la componente indigena, in parte in seguito all’incontro/scontro con i Greci, la cui civiltà fu destinata a predominare. Non dobbiamo immaginare uno scontro titanico e risolutivo. L’atteggiamento degli indigeni verso i Greci sarà duplice: da un lato essi avvertiranno la suggestione dei nuovi venuti e ne apprezzeranno la cultura, dall’altro cercheranno di resistervi. Il più significativo tentativo di opposizione sarà quello di Ducezio, forse consapevole di combattere una guerra senza speranza, che fonderà una confederazione di Siculi e affronterà, con qualche successo, i Greci. La sua morte segna la fine dello sforzo di creare uno “Stato” siculo. I Siculi in seguito si alleeranno prima in un processo di fusione che porterà le città sicule a dotarsi di strutture edilizie greche e che farà dire a Diodoro Siculo: “Le popolazioni si mescolarono a causa del gran numero di Greci sbarcati in Sicilia, gli indigeni ne impararono la lingua. Educati secondo i costumi greci, essi alla fine rinunciarono alla lingua barbarica e al nome originario e furono chiamati Sicelioti “ .
Claudia Sudano