“Stanotte ho fatto un sogno strano. – mi dice Cicerone cavalcando al mio fianco – Sentivo la voce di un uomo avvolto nella nebbia; distinguevo a stento il vestito di foggia etrusca, la testa allungata, gli occhi fiammeggianti…”
“Un tuo antenato?”
“Possibile. Ci sono stati anche etruschi ad Arpino. Mi parlava con tono famigliare e mi chiamava Marco. Diceva che la mia vita sarebbe stata ricca di successi e di sconfitte cocenti. Tu che conosci la mia storia, potresti anticiparmi qualcosa?”
Lo guardo con condiscendenza sapendo di non potergli rivelare niente se non piccoli particolari innocui.
“Sai che non posso… tuttavia ti dirò che avrai una figlia, Tulliola, che amerai molto; avrai anche a che fare con un certo Catilina… Se il tuo antenato etrusco ti ha parlato in sogno, un motivo ci sarà. Pare che essi fossero di origini aliene, cioè di altri mondi. Quindi sei alieno anche tu!”
“Non saprei… Però, se avrò una figlia, ne sarò felice. Già mi sono affezionato a Makaria e mi piace il modo riverente con cui mi guarda.”
Gheorgos e Victor si avvicinano per dirci che stiamo per arrivare nelle proprietà di Silviano, da lontano si vede il fumo che si alza dai bracieri e dal forno acceso. Si sentono i campanacci delle mucche al pascolo e immagino già che ci sarà la ricotta calda ad accoglierci.
Scendiamo da cavallo per andare incontro al padrone di casa sorridente, accompagnato da altri due decumani che abitano qui vicino, credo.
“Benvenuti nella mia umile dimora. Ho fatto preparare il calidarium per ristorarvi della cavalcata. Dopo pranzeremo e parleremo dei nostri affari.”
Makaria, ligia al suo incarico, chiede il permesso di andare in cucina a parlare con le donne di casa. Subito dopo, anche noi ci trasferiamo nel triclinio. Nelle due nicchie delle pareti, imbiancate a calce, ci sono statuine di bronzo di squisita fattura: un Eracle con la leontè e un gruppo che raffigura Artemide seguita da un bellissimo cane cirneco, tipico del culto autoctono del dio Adrano.
Intanto Cicerone studia dei rotoli di pergamena che Victor e Gheorgos illustrano sotto lo sguardo compiaciuto di Silviano. I vicini presenti, Crispo e Fanzio, si lamentano delle vessazioni di Verre che li hanno costretti a frodare Roma per poter sopravvivere.
“Abbiamo dovuto nascondere parte dei raccolti, altrimenti saremmo stati ridotti alla fame e la cosa ci dispiace, – dice Crispo.
Gaio e Sothirios, prendendo appunti sulla quantità di grano prodotto e consegnato, scuotono la testa costernati.
“Quali tipi di frumento coltivate? – chiede Gaio, il più aperto e loquace.
“Russellum e Saccumperforans”.
Li conosco e nel mio tempo si chiamano Russello e Perciasacchi, due dei grani antichi siciliani che sono coltivati con successo; hanno una resa limitata ma sono più ricchi di nutrienti rispetto alle colture canadesi che hanno causato allergie al glutine.
Delle serve portano i piatti del nostro pranzo, piatti contadini semplici e genuini.
“Ecco la ricotta appena affiorata nel calderone in cui viene scaldato il latte delle nostre mucche per fare il formaggio. La serviamo dentro le cavagne, contenitori di canne legate insieme.”
Silviano è orgoglioso di questa prelibatezza.
Subito dopo, Makaria ci informa sull’altra pietanza in arrivo: “Mi hanno detto in cucina che si chiama Caturrum. Le donne si ingegnano come possono, frantumano con due pietre triangolari il grano e lo fanno cuocere lentamente nel paiolo, poi lo condiscono con semi e steli di finocchio selvatico e olio d’oliva. Valorizzano quello che hanno a disposizione. Secondo me, sono degne di lode, signori miei.”
Assaggiamo questo rustico cibo modicano e osservo Gaio che ne divora con gusto un’altra porzione.
Ora è la volta del macco di fave private della pelle dura e dell’arrosto di agnello.
Sazi infine, iniziamo a parlare di come Cicerone abbia intenzione di usare le testimonianze dei decumani modicani nel processo a Verre.