La Modica di Enzo Belluardo

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“Caffè: uomini… euro 80, donne… euro 70, gay… euro 75”
Questo cartello, apposto in un bar del centro di Modica, ha fatto il giro del mondo. Il proprietario, intervistato, ha dichiarato di non essere omofobo e ci crediamo, perché siamo convinti che il prezzo ridotto per i gay possa essere stato… un gesto di cavalleria.
Vien da chiedersi però in base a quale elemento il gay in questione possa dimostrare di esserlo. Maschio e femmina lo troviamo scritto sulla carta d’identità, ma gay? Andrebbe inserita questa previsione nei documenti ma ancora non lo è, quindi un uomo, per pagare 5 centesimi di meno, lo può dichiarare senza che si possa dimostrare che mente?
Ecco dunque che torniamo al discorso da noi ribadito più volte che è una sciocchezza fare distinzioni nelle professioni o nelle cariche fra il maschile e il femminile. A parte la cacofonia fonetica che queste generano, a parte la ghettizzazione (sì, ghettizzazione, perché limita la professione o la carica al genere invece di dare la prevalenza all’attività svolta), ci troviamo in questo caso di fronte all’impossibilità di determinare il genere se non sulla parola del soggetto. Ridicolo, inappropriato e stupido. Non per niente di questa iniziativa si è parlato e si è parlato persino sul web facendo ridere o indignare i suoi innumerevoli frequentatori. L’Arcigay ha protestato e il cartello è stato rimosso, ma ormai aveva già fatto il giro del mondo.
Oh, certo, il bar ha conosciuto una pubblicità come nessuna insegna, nessun volantino, nessun megafono avrebbe potuto fare e per la pubblicità oggi si è disposti a fare qualsiasi cosa, perfino sprofondare nel cattivo gusto.
Però questo “lancio pubblicitario” non è stato visto bene dai frequentatori del web, col risultato che il nome di Modica è stato portato alla ribalta non certo in maniera positiva.
Un tempo si parlava di questa cittadina per le sue radici culturali, per la bellezza di chiese e palazzi, per la storia di quella Contea che aveva caratterizzato di sé i tempi del feudalesimo con i Chiaramonte e i Cabrera, quando era definita Regnum in regno. Una ventina di anni fa era stata rilanciata turisticamente al punto che il duomo di S. Giorgio era comparso sulla copertina della rivista del Touring. Era stata rilanciata per la sua bellezza, per la sua arte, per i suoi vicoli incontaminati dal tempo. Ma poi la bellezza è diventata sempre meno importante per essere surclassata da beni materiali, molto materiali, così Modica ha puntato sulla cioccolata per far parlare d sé, senza rendersi conto che il suo nome si stava affermando nel mondo grazie al nobile sport della scherma. Ma no! Volete mettere l’importanza della cioccolata? Non più statue a Carlo Papa ma alla barretta di cioccolata! I locali esclusivi, i negozi raffinati hanno lasciato il posto alla massificazione che appiattisce e spersonalizza. Pittori, scultori, poeti sono finiti in cantina, adesso largo agli chef! Perché nel mondo conoscenza, bellezza, arte hanno perso importanza, si cercano solo i beni materiali, è il gusto il senso più omaggiato, quello che accarezza il palato, non il buon gusto, è allora perché non lanciare una pubblicità di pessimo gusto, ma di quelle che spaccano, come usa dire oggi, l’importante è diventare famosi, anche, e soprattutto, senza un motivo.
Riso peperoni e tonno
Ingredienti:
350 gr di riso basmati, 50 gr di riso selvaggio, 100 gr di riso rosso, 5 peperoni cornetto, 1 cipolla , 10 olive nere, 2 scatolette di tonno sott’olio, 1/2 bicchiere di vino rosso, 4 cucchiai di salsa di soia, q.b. di olio, sale e pepe di sechuan, qualche foglia di basilico
Preparazione:
mescolare insieme i vari tipi di riso, metterli a bagno per trenta minuti, nel frattempo in un tegame fare stufare la cipolla con olio, vino e acqua, quando si asciuga il liquido aggiungere i peperoni tagliati a cubetti e fare cuocere unendo acqua calda quando occorre. Appena i peperoni si ammorbidiscono, unire il riso scolato, fare rosolare e aggiungere quanto basta di acqua calda per completare la cottura. Unire alla fine il tonno sgocciolato e la salsa di soia, regolare di pepe, aggiungere il basilico spezzettato con le mani, completare con un giro d’olio a crudo e servire.
Su sollecitazione della nostra amica Montù riprendo il discorso di Romano di Salvo, anche per la curiosità che ha suscitato in molti di voi che leggono queste note. Qualcuno si sarà chiesto; ma qual era la ricerca che voleva portare avanti Romano e che ha suscitato il disappunto e il diniego del suo Direttore, nonostante il parere favorevole del consiglio di Istituto? L’idea (che gli ha rovinato la vita) era semplice e rivoluzionaria insieme e prendeva le mosse da un libro di chirurgia vascolare di un Autore francese, Maurice Servelle. Vediamo. Voi tutti conoscete le varici degli arti inferiori (tutti abbiamo una zia sovrappeso che ne soffre) e la vulgata tradizionale sostiene che si tratti di un’insufficienza valvolare della grande safena; in pratica il sangue che “risale” dalla gamba per dirigersi al cuore non trova più la valvola della safena all’inguine che lo trattiene e quindi “torna indietro” causando la dilatazione di tutte le vene sottostanti. Spiegazione pecoreccia, ovvio, ma l’importante è farsi capire e spero di esserci riuscito. E spiegazione da tutti comunemente accettata, insomma “time honored” come si dice, sia nei congressi che fuori. Servelle in un capitolo intitolato “la sindrome du solaire” sosteneva invece che in alcuni casi il muscolo soleo, un robusto muscolo del polpaccio, “strozza” le vene del circolo profondo e quindi il sangue, non trovando la sua strada tra i tronchi venosi profondi della gamba e della coscia, prende la strada della superficiale vena safena per tornare al cuore, sovraccaricandola, dilatandola e da qui le varici. In pratica; se il casello dell’A1 di Fiano Romano è intasato io per evitarlo esco sulla Tiberina per tornare a Roma. Il casello sono le vene profonde, la Tiberina sarebbero le vene superficiali, ovvero la safena, Roma sarebbe il cuore: chiaramente dopo un po’ la Tiberina bisogna farla a quattro corsie perché non regge più il traffico. E quindi si dilata, proprio come una safena varicosa. E chiedo scusa all’ANAS per questo paragone, che spero sia stato esplicativo (dire tiberina varicosa sarebbe stato troppo). Quindi galeotto è stato il capitolo di poche pagine di un libro, ma che ha subito solleticato la fervida immaginazione di Romano. Il quale non ha esitato ad utilizzare lo studio delle pressioni venose dell’arto inferiore (con un suo sistema computerizzato costituito da trasduttore analogico digitale collegato al PC) per vedere se bloccando le safene varicose con un laccio le pressioni aumentavano. E queste aumentavano, ero presente per confermarlo. Insomma, chiuso il casello di Fiano e chiusa la Tiberina ingorgo venoso assicurato, pressione delle auto in fila, duelli al cacciavite, duri giudizi sulle madri (come diceva Fantozzi), teoria dimostrata, vive la France! E, a ulteriore riprova, quando il laccio emostatico veniva tolto le pressioni tornavano normali. La soluzione quindi era chiara: mediante un’incisione chirurgica sbrigliare il tendine muscolare responsabile della strozzatura, liberare le vene profonde e poi studiare il risultato. E questa era la ricerca chirurgica che Romano proponeva e che aveva ottenuto il benestare del Consiglio di Istituto. In un’epoca in cui si sosteneva che le calze elastiche e i flebotonici risolvevano il problema delle varici si trattava di un messaggio a dir poco dirompente; inoltre in un colpo solo si distruggevano le certezze di un trattamento chirurgico consolidato quale lo stripping, per far diventare le varici un intervento quasi ortopedico. Le pressioni venose si rilevavano con il doppler, all’epoca ancora una novità, le pressioni con l’ago in vena sembravano una bestemmia. E poi c’erano comunque dei problemi; questa teoria andava dimostrata anche con la diagnostica strumentale e allora c’era solo la flebografia che dava risultati incerti, anche se lo studio delle pressioni venose era piuttosto significativo. Inoltre la sede della “strozzatura” andava almeno dimostrata prima di procedere con il bisturi. Ce n’era abbastanza comunque, come si direbbe in gergo giudiziario per “aprire un fascicolo”, anche se di ricerca, e invece Romano si è trovato di fronte un muro. E quello che è successo lo sapete tutti. Gli anni sono passati, quasi quaranta, e oramai qualcuno comincia a teorizzare di una origine “ascendente” delle varici che, anche se non parla di “sindrome del soleo,” la suggerisce. Senza contare che all’ultimo congresso dell’UIP a Istambul qualcuno ha ammesso che andando a rimuovere le varici di gamba il diametro della Grande safena all’inguine (all’ostio, ovvero al suo ingresso nella femorale) diminuirebbe sensibilmente. Insomma, se dal casello della A1 non posso più prendere la Tiberina questa non si ingorga più e non c’è più bisogno di farla a quattro corsie; in pratica, se finisce l’iperafflusso in una safena utilizzata come circolo collaterale, sezionando le vene che vi portano il sangue che non passa per il circolo profondo, il calibro ritorna normale. Oggi i mezzi per studiare cosa succede nelle vene profonde del polpaccio durante la stazione eretta e, soprattutto, durante la deambulazione ci sarebbero e finito il clima soffocante degli anni 80, forse sarebbe possibile giungere a qualche conclusione in più. Qualcuno lo farà? La flebologia si sta ponendo molte domande anche perché, con l’andare del tempo, qualcuno ha cominciato a non accontentarsi più di certe risposte. Vedrete che fra qualche anno a un congresso un francese presenterà la sindrome del soleo come una grande novità ed acquisterà gli onori della fama congressuale. Una ricerca non è mai tempo perso, qualunque risultato dia. L’importante è avere voglia di farla.
Alberto Garavello
Serata gremita di giovani studenti alla Domus S. Petri di Modica, location che ha ospitato giovedì 20 ottobre l’incontro con lo scrittore Eraldo Affinati, un pomeriggio avvincente dove gli studenti delle scuole superiori hanno avviato una profonda riflessione con l’autore, al quale hanno posto tante domande sulla vita, sul futuro. La serata era inserita all’interno del percorso di formazione avviato a settembre dall’Istituto G. Galilei, dalla “Fondazione di Comunità Val di Noto”, dalle associazioni “Arca” e “Casa don Puglisi”, un corso dal titolo “Non solo cumuli di pietra”: pratiche educative verso città inclusive e liberanti, rivolto a docenti, educatori e specialisti della formazione in genere. Lo scrittore Eraldo Affinati ha affascinato i presenti con la sua storia, il racconto di un giovane romano che comprende la sua missione di insegnante sperimentando ogni giorno l’incontro con gli allievi più difficili e isolati dalla società, c’è tanta sofferenza in certi ragazzi, ma nessuno la sa cogliere e lentamente questa si trasforma in rabbia esplosiva. La scuola ha il dovere di cogliere tutte le situazioni più fragili e fornire delle opportunità a tutti, indistintamente. E’ proprio su questa grande capacità di incontrare l’altro che deve fondarsi l’insegnamento, incontro inteso come attività protesa verso la vita dello studente, azione che si fonda essenzialmente sull’ascolto e sull’interesse reale alla crescita del ragazzo. Affinati ha poi raccontato ai presenti com’è nata l’idea della scuola “Penny Wirton”, questa nasce da un sogno, quello di insegnare la lingua italiana ai migranti, come se parlare, leggere e scrivere fossero acqua, pane e vino. Senza classi. Senza voti. Senza burocrazie. Lavorando al presente con chi c’è, con quello che si ha. Cercando di dare a ognuno ciò di cui lui, o lei, ha bisogno. Il professore poi ha ribadito che è importante credere nella qualità speciale del rapporto umano che si può realizzare nell’insegnamento “uno a uno”, infatti ha ricordato ciò che davvero deve spingerci verso l’altro: la passione e la solidarietà. Egli infatti ha poi spiegato che le sue scuole:“Accendono passioni, elaborano esperienze, costruiscono legami, si acquisisce uno spirito, si impara uno stile. Non vogliamo fare semplice intrattenimento. Siamo legati al rigore didattico, consapevoli che, come sapeva il priore di Barbiana, senza lingua non si può vivere. Senza nomi si muore”. La serata si è conclusa con la presentazione del suo ultimo libro dal titolo: “Il vangelo degli Angeli”, un testo che riscrive il Vangelo di Luca attraverso un viaggio suggestivo nella vita di Gesù pensato al presente, come una Grande Forza perenne che riesce a risvegliare le coscienze e ridestare antiche domande sulla fede, sulla giustizia e sulla libertà di scelta, questioni etiche e civiche che sono sempre attuali. Insomma, una serata davvero piena di energia e forza creativa, un incontro con un uomo che riesce a trasmettere veramente tanto, proprio perché lui stesso è esempio di grande forza e determinazione.
Graziana Iurato
Cominciamo da oggi a pubblicare il libro del dott. Alberto Garavello, un capitolo per volta. Ci auguriamo che la sua lettura possa essere gradita
INTRODUZIONE
Di solito in Medicina i lavori si scrivono così; introduzione, materiale e metodo, risultati, discussione e bibliografia. Questa non è una pubblicazione scientifica, ma cominciamo lo stesso dall’introduzione. Quello che state per leggere non è un diario vero e proprio perché non è stato scritto nel momento esatto in cui le cose accadevano, ma quasi quarant’anni dopo. Se l’avessi scritto prima probabilmente mi sarei fatto prendere la mano dalle emozioni e dalle arrabbiature, quindi non sarei stato obiettivo e non è un bene. Oggi si parla molto di Sanità, di crisi delle vocazioni, di mancanza di medici, di reparti vuoti, di scuole di specializzazione deserte, ma di tutto questo non si cerca mai la causa. Io ho voluto portare la mia esperienza di studente alla Facoltà di Medicina di Roma “La Sapienza” dal 1978 al 1985 per farvi capire quale è stata la nostra formazione universitaria e professionale, o meglio quella di quei medici di circa 60 anni che oggi trovate quotidianamente nei reparti o nei pronto soccorso. E che spesso vengono criticati, tacciati di incompetenza e talvolta denunciati. Quando si parla di Sanità oggi si parla quasi sempre di soldi che non ci sono, ma nonostante tutto quello che si dice alla Sanità è facilissimo dare soldi, molto meno facile è creare un corso di studi che formi realmente dei medici che, alla fine dei sei anni canonici, siano in grado di curare un paziente, insomma medici “chiavi in mano”. Vi sembra strano? Non direi. Di soldi il Sistema Sanitario Nazionale ne ha divorati parecchi in quarant’anni ed ogni volta che se ne parla sento sempre i soliti lamenti sul “sottofinanziamento” del SSN. Sarà vero, pure al netto di tutti gli sprechi e le malversazioni che leggiamo sui giornali tutti i giorni, ma è altrettanto vero che formare dei medici che non “facciano” i medici ma “siano” dei medici è molto più difficile e mi pare che di sforzi in questo senso non ve ne siano stati molti; se oggi i laureandi stanno un po’ meglio di come stavano quelli della mia generazione credo sia perché sono molti di meno e non hanno sofferto il fenomeno della “pletora medica”, di cui io ed i miei colleghi siamo stati le vittime e neanche le più illustri. Sento spesso i racconti degli specializzandi che vengono in ospedale, ovvero i pochissimi che ancora oggi decidono di fare chirurgia; francamente non mi sembra che le cose siano cambiate molto da quel lontano 26 luglio del 1985 quando mi laureai alla Sapienza di Roma in Medicina e Chirurgia. E anche questo non è un bene. Quando lasciai l’università ed iniziai a frequentare l’ospedale nel 1986, non c’era l’obbligo di frequenza alla specializzazione, ma non c’era neanche lo stipendio che oggi prendono gli specializzandi. In ospedale si andava per imparare a lavorare e tutto questo senza prendere una lira, eppure noi “assistenti volontari” (alla Dottor Tersilli per capirci) eravamo almeno 6 o sette a frequentare il Reparto. E posso dirvi che furono anni straordinari, anche perché trovammo degli ottimi Maestri messi a guidare un reparto non dalla politica, ma da una professionalità guadagnata sul campo. Per carità, anche allora c’erano le raccomandazioni tanto è vero che si diceva che “hanno assunto tre primari, uno comunista, uno democristiano e uno che sa operare”. Ma i Maestri in ospedale c’erano, se li cercavi li trovavi e diffidate sempre di un chirurgo che vi dice di non aver avuto un “maestro”; l’istituzione di per se stessa non forma nessuno, in chirurgia il “maestro” è fondamentale e chi non l’ha avuto lo vedi subito da come muove le mani. Tornando a noi oggi i giornali sono pieni di articoli sulla crisi delle “vocazioni” e sulla mancanza di futuri chirurghi; questo può sorprendere tutti tranne me, che ho vissuto in prima persona le meraviglie dell’università di massa che ci ha avvelenato la vita e la professione per molti anni. Ma andiamo per ordine, non voglio anticiparvi nulla; gli avvenimenti che vi vado a raccontare prendono inizio nella tarda estate del 1978 quando mi iscrivevo (o immatricolavo) alla Facoltà di Medicina dell’Università “La Sapienza” di Roma.
Erano tempi che oggi non sono neanche immaginabili; uscivamo dal Liceo della violenza degli anni 70, dei collettivi, delle assemblee, delle autogestioni, delle occupazioni, della legge Malfatti, dei consigli di istituto e dei consigli di classe. C’eravamo anche illusi di contare qualcosa, il Liceo era la nostra casa di tutti i giorni e molte amicizie sarebbero rimaste per anni (e per me ancora lo sono.) Ci avventuravamo però in un qualcosa di inesplorato, ovvero il mondo universitario, di cui avevamo poche o punte informazioni; niente appelli in classe la mattina, niente ricreazione, niente interrogazioni o compiti a casa. Informazioni scarse e vaghe, soprattutto dai fratelli maggiori, insomma un salto nel buio. Un salto come quello che sto per farvi fare portandovi nella tarda estate del 1978.
ESTATE 1978. IL SACRO FUOCO DELLA VOCAZIONE
Leviamo tutte le facoltà con la matematica. E già stiamo un passo avanti. Legge? Figuriamoci, tutto il giorno in mezzo ai delinquenti. Storia e Filosofia neanche parlarne, mica voglio andare in qualche Liceo a fare la fine del professor Unrat, quello dell’”Angelo Azzurro”. Scienze? E’ pieno di donne, ma poi che ci faccio? Medicina? Poi posso fare il dentista. Anche se c’è crisi qualche cosa ci tiro fuori. Medicina. Vi sembrerà strano, ma la mia scelta la feci così, del resto nella mia famiglia papà e zio erano laureati, la mia strada per l’Università era obbligata. In genere a Roma il “cursus honorum” del medico era strutturato così; il figlio primogenito della famiglia della buona borghesia faceva il liceo classico e poi si iscriveva a Medicina; con la riforma del 69 è cambiato tutto ed alla facoltà di Medicina ha potuto accedere anche chi non veniva dal Liceo. Onestamente non so se questo sia stato un bene o un male, ma credo che oltre al numero bisognerebbe anche guardare alla qualità dei laureati che si formano nelle facoltà, specie per una che metterà la salute dei suoi figli in mano ai medici che andrà a formare. Ma una cosa mi apparve subito chiara. Eravamo tanti. Anzi, troppi.
Qualcuno dirà; eravate i figli del boom economico voi degli anni 60, ed è vero, infatti due figli nelle famiglie erano quasi la regola, ma purtroppo l’imbuto si farà sentire non tanto al momento dell’iscrizione (avanti tutti a quadrati battaglioni…) ma al momento di cercare un lavoro con la laurea in tasca.
Ma non anticipiamo.
ISCRIVERSI
Iscriversi è il primo esame della facoltà di Medicina, ma nessuno te lo dice e quindi non fai in tempo a prepararti. Vado all’Università senza un’idea precisa dimquello che devo fare e quindi vedere la fila all’Economato per prendere i moduli dell’iscrizione mi fa un certo effetto. Tuttavia durante la coda imparo un sacco di cose interessanti, ad esempio dov’è la Segreteria degli studenti e quando si pensa (si pensa…) inizieranno le lezioni. Allo sportello mi viene consegnata una busta che apro con curiosità: un poker di moduli di conto corrente e un foglio per l’iscrizione o l’immatricolazione (testuale). Dubbio….devo iscrivermi o immatricolarmi? In realtà devo iscrivermi, però mi dovranno dare la matricola, no?
Chiedo. Devo immatricolarmi. Rigiro i fogli nella busta; nessuna indicazione sullo svolgimento delle lezioni, la sede degli Istituti, insomma su dove bisogna andare a sbattere le testa per iniziare. Credetemi, ancora oggi sogno che devo iniziare le lezioni e giro per la facoltà senza sapere dove andare. In realtà tutto è basato sul passaparola tra studenti e presto scopro che sono proprio le colleghe più bruttine le più informate; per andare tranquillo ne scelgo una veramente contro ogni tentazione e vado a far colazione con lei al bar dell’Università. So quello che state pensando di me, ma vi prego di credere che ero veramente alla disperazione. In mezz’ora questa mi fa una mappa di tutto l’iter universitario del primo anno, sbrodolandosi con il cappuccino mentre io prendo appunti a raffica.
Grazie per sempre, collega, mi auguro che ti sia sposata ed abbia avuto tanti figli come desideravi (non credo però). Vittorio, un mio compagno di Liceo di cui più tardi vi parlerò, ha invece scoperto che per le “dritte” burocratiche gli studenti greci sono ancora più agguerriti, in particolare sui professori più pericolosi; li vedrò personalmente esibirsi in alcuni arditissimi cambi di “canale” per dribblare esami tritacarne. Debitamente informato compilo giudiziosamente tutti i moduli e mi presento in Segreteria per iscrivermi. Emozione, ma contegno. Purtroppo la fila della Segreteria è di gran lunga più sanguinosa di quella dell’Economato perché i locali sono piccoli e gli ultimi della coda vengono inesorabilmente schiacciati contro le grate della finestra. Si trova al primo piano di una vecchia palazzina della Città Universitaria; i muri sono piuttosto sporchi (ovvio, con tutta quella gente, però ogni tanto potrebbero pulirli) e tappezzati dai soliti annunci che si vedono in tutte le segreterie universitarie (vendo Morini 3 e 1|2 quasi nuovo, dividerei appartamento con studentessa, vendo cucciolo di maremmano, tutti al concerto di musica cilena al Centro autogestito… eccetera). Uno spettacolo del tutto particolare sono le “mamme da fila” che con pazienza vanno ad iscrivere la figlia o a presentargli lo statone; sono molto temute da noi studenti perché ogni volta allo sportello accendono discussioni chilometriche. Ma il vero spauracchio sono gli studenti nordafricani; generalmente presentano uno statone pieno zeppo di complementari o (peggio) tentando di ottenere cambi di canale funambolici o trasferimenti da altre università. In questi frangenti l’impiegato assume un’aria rassegnata, poi comincia ad elencare i documenti necessari e quelli che mancano ed a questo punto succedono due cose; lo studente di colore inizia a polemizzare in un misto di italiano e romanesco ed io cambio fila.
Si racconta che per prolungare l’appello di un certo complementare (e quindi guadagnare qualche giorno di studio con le prenotazioni) alcuni studenti extracomunitari abbiano iscritto tutta la nazionale di calcio tunisina all’appello della sessione; forse non è vero, ma è verosimile. Mi presento in Segreteria dopo aver ricontrollato mille volte la documentazione che tengo in busta, comprese le fotografie ed i conti correnti. Falsa sicurezza; dovrò tornare altre due volte. La collega non mi aveva detto tutto, oppure mi ero distratto. Spiego: al primo tentativo scopro con dispiacere che ho dimenticato la domanda al Magnifico Rettore (scritta a mano su carta protocollo, “Ma non ho già compilato il foglio della domanda di iscrizione?” – “Quella è per la Segreteria!” – Ah si? Bisogna mandargli la letterina come a Babbo Natale? E lui che fa, le legge tutte quante la sera dopo il film? E scarta quelli che gli sono antipatici?), mentre la seconda volta manca un conto corrente (ma nella busta non c’era). La terza volta sono deciso; o mi accettano o rinuncio per sempre. L’impiegato prende i fogli, li esamina uno per uno e mette un paio di firme; immatricolato, si accomodi. E se pensate che le cose siano cambiate di molto devo deludervi; nel 91 partecipai ad un dottorato di ricerca, nella disperazione della disoccupazione. Giudiziosamente presentai tutti i documenti in segreteria (un altra), dopodiché a casa mia giunsero una serie di telefonate a raffica con panico di mia madre: “si presenti per comunicazioni urgenti”. Sospettando chissà cosa corsi allo sportello; il problema era che in due delle tre foto avevo una maglietta gialla e nella terza una maglietta arancione. Un vizio di forma inaccettabile. E il bello è che quel concorso lo vinsi pure; si trattava di un dottorato in chirurgia vascolare e toracica. Per completezza andai a parlare con il docente che almeno nella sua crudezza ebbe il pregio della sincerità: “vabbè… vieni qui qualche volta a fare qualche cartella e poi vediamo.” Questo era il programma del dottorato. Non lo presi come un incoraggiamento ed è inutile dirvi che rifiutai, anche considerato lo stipendio simbolico di 500mila lire al mese, ovviamente con l’impossibilità di fare qualunque altro lavoro (a 30 anni 500mila lire bastano e avanzano, niente vizi per carità!) E anche allora non erano molte; poi mi vengono a dire che i giovani se ne vanno dall’Italia, direi che sono pure troppi quelli che restano.
Nell’immaginario infantile di tutti noi le grandi fiabe nordiche ruotano immancabilmente attorno a un castello: una mole colossale che si erge cupa e solitaria, provvista di fossati, guglie, torri, merli, abitata da principesse tristi, da streghe perfide e malefiche o infestata di spettri. Un mondo magico dove tutto è possibile, perché tutto è soggetto a incantamento.
In Sicilia sono presenti più di duecento castelli, forse non incantati ma carichi di fascino. Da Milazzo a Sperlinga, da Alcamo a Caccamo, da Castelbuono a Carini – solo per citarne alcuni – essi ci raccontano una storia che, prendendo le mosse dai castra e dai fortini contro le razzie saracene, prosegue con i castelli normanni e federiciani, con i grandi castelli feudali e coi palazzi baronali. Architetture composite, coerenti con le innumerevoli contaminazioni di cui è ricca, per la sua stessa storia, l’architettura siciliana militare e non.
Ho visto molti di questi castelli, ma quello di Mussomeli è, a mio parere. il più suggestivo e superbo.
Il castello è plasmato da una naturale efflorescenza: la roccia trasmuta lentamente in mura, archi, feritoie. Solcata da un percorso spiraliforme nel quale si indovina un sentiero di ciottoli in ripida salita, culmina in un ultimo sperone, tra le cui asperità si innestano i contrafforti di un mastio scontroso e solitario. Si affaccia su un vallone per lo più arido, quando non si trasforma, nelle brevi primavere siciliane, nella più dolce e verde delle pianure. Allora il vento lo flagella, e colonie di uccelli selvatici nidificano nelle alte feritoie.
Era primavera quando, tempo fa, andai a visitarlo. Mi colpì subito il contrasto tra la dolce ondulazione di una vasta pianura erbosa e la rocca a strapiombo alta quasi ottocento metri che, surreale come un miraggio, evocava atmosfere lontane, forse le Meteore greche o i manieri scozzesi, e ciò bastò a promettere alla mia visita le emozioni segrete di un’avventura dell’anima.
Secoli di ribollenti tensioni, la Sicilia del ‘300: gli intrighi dei Baroni finiscono per creare una casta in contrasto con una Corona sbiadita e impotente. I castelli di questo periodo sono l’immagine architettonica dell’audacia, dell’ambizione e dell’arroganza delle grandi Casate feudali. Il castello di Mussomeli viene edificato dai Chiaramonte nel 1370. Il fortilizio è costruito ad una tale distanza dal borgo (quasi due km) da rendere plausibile l’ipotesi della destinazione strategica, confermata dalla doppia cinta muraria, quella esterna per offrire riparo agli abitanti e quella interna per proteggere la residenza padronale. L’Impianto, che sembra attingere ai castelli svevi e che potrebbe essere nato da una precedente struttura, consiste in spazi quadrati coperti con volte a crociera costolonate e una rosetta nel concio di chiave. Superato il fossato e l’impervia scalinata, si incontra un primo imponente arco ogivale che si affaccia su quella che doveva essere una scuderia destinata ad ospitare cavalli, stallieri, rudi armigeri pronti a tutto. Ancora gradini dissestati, e mi trovo in una corte poligonale protetta dalle mura merlate, dove si affacciano gli ambienti residenziali, la cappella e i resti del mastio: il cuore del castello. Ciuffi d’erba e fiori di campo si sono fatti largo tra gli anfratti dell’acciottolato. Il cortile è attraversato da folate di vento che si incunea dalle feritoie.
Oltrepassando alcuni ambienti smangiati dal tempo, ecco la preziosa porta d’ingresso della Sala Del Trono o dei Baroni. Qui, infatti, nel 1391 furono riuniti da Manfredi i baroni siciliani che, poco dopo, decisero di resistere all’armata aragonese che intendeva restaurare l’autonomia della Corona, ma sempre qui, in questa gentile arcata e in queste colonnine dai capitelli fioriti, i Chiaramonte hanno anche lasciato, attraverso un’impronta inconfondibile, il loro amore per la raffinatezza dei dettagli. Parlo del motivo a zig zag che percorre tutto l’arco e che rende riconoscibili molti altri edifici chiaramontani siciliani. La sala, a volta con capriate lignee, è provvista di due eleganti bifore che si affacciano sullo strapiombo e catturano la luce inquadrando un paesaggio ora scabro ora verdeggiante secondo le stagioni. Non è difficile immaginare l’eleganza originaria di queste stanze, con le pareti intonacate su cui spiccavano ghiere e costoloni impostati su pilastrini angolari a pianta poligonale.
Superata la sala attraversiamo un’angusta scaletta che conduce in una cameretta triangolare, la cui poca luce proveniente da una feritoia non riesce a temperare l’impressione di soffocante clausura. Questa stanza racchiude un sinistro segreto, la leggenda di tre sorelle murate vive dal fratello Federico III, in procinto di partire per una guerra e geloso della loro verginità. Essendosi la sua assenza prolungata più del previsto, le ritrovò morte per fame. Di notte le tre sventurate donne vagherebbero gemendo, sotto forma di fantasmi, tra le rovine. Oltre alla stanza di li tri donni un’altra leggenda vede come protagonista Laura, la baronessa di Carini, figlia del conte di Mussomeli, Cesare Lanza, e amante di Ludovico Vernagallo, uccisa dal padre e dal marito per tradimento. Pare che lo spettro della donna si aggiri per le stanze cercando il padre per vendicarsi.
Uscendo nuovamente nel cortile interno, lancio uno sguardo agli imponenti resti del mastio, luogo di vedetta e di estrema difesa, a cui si accede da un solo fianco, attraverso un’ultima stradina che serpeggia irta incuneandosi tra merli e feritoie. Il castello, dopo il declino dei Chiaramonte, passò dal Demanio Regio a vari aristocratici fedeli alla Corona, fino alla famiglia Lanza di Trabia, che ne rimase proprietaria fino al XIX secolo. Gian Giacomo Adria, medico di Carlo V, ne parlava in questi termini: ”Castrum est eminens, forte, pulchrum, cum par non inenitur in hac regione”. E’ vero, questo roccione dantesco che mi sto lasciando alle spalle ha la bellezza di uno scrigno geloso dei suoi segreti secolari, ha la purezza di un’architettura salvata miracolosamente da maldestri ripristini e sospesa in una dimensione senza tempo.
Claudia Sudano
La guerra è un’attitudine
cui l’uomo fa abitudine.
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La guerra è l’attività
che dà la libertà
alla morte
di esser della vita
più forte.
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Alla Sinistra piace
litigare anche per la pace.
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Sinistra è la Destra,
ma è sempre
la stessa minestra.
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Rosi Bindi ha parlato:
il PD è un partito disastrato
che finge di essere, ma non è mai nato.
Chi vota per lui resterà fregato.
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Son cambiate le stagioni:
c’era un tempo Berlusconi,
ora tocca alla Meloni.
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Le donne, il Cavalier, l’arme canto e gli amori
di quel che in Senato è entrato e già sta fuori.
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Alla Camera Fontana
con la fede sua cristiana
muta l’acqua come a Cana.
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La Scrofa è una via di Roma
dove il Berlusca è andato, in coma.
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In politica “maiale”
è un epiteto cordiale,
giusto ed equosolidale.
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Del popolo il voto
da sempre è arcinoto
che è un buco nel vuoto.
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Com’è brutta la stoltezza
che rimane tuttavia,
degli eletti la schifezza
non vogliamo buttar via
e rimane la tristezza
che di meglio non ci sia.
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Dalla sera alla mattina
Parlamento e cocaina
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Sempre le cose vere
escono dal sedere.
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Com’è gentile il 25 aprile!
Non lo vuol festeggiare
solo il popolo più vile.
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Berlusconi è verde di bile:
Giorgia è abile
e non è ricattabile.
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Rose bianche reca Ignazio.
Dei giudei resta lo strazio.
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Speriamo che Giorgia cinta di gloria
governi come la regina Vittoria
e mai da Silvio contraddetta
regni come la regina Elisabetta.
Nel congresso del PD che cosa va cercando il segretario Letta, visto che è stato proprio lui a porgere in un piatto d’argento la vittoria alla collega avversaria Giorgia Meloni? Letta va dicendo che, se il nuovo governo di centro destra cadrà, andremo di nuovo al voto. Ma, io dico, per far che cosa? Forse per provare dopo pochi mesi a fare il bis della passata sconfitta? Ma perché, nell’ambito di tutto il PD, non c’è stato nessuno capace di metterlo in guardia dall’errore che stava facendo di escludere l’alleanza con i Cinque Stelle anche se fino a poco tempo prima si trovavano insieme nel governo giallo-rosso diretto da Giuseppe Conte, che stava andando nella direzione giusta ed è stato sfasciato da altri che avevano interessi propri?
Anche se con qualche disaccordo per alcune scelte, il centro destra ha formato il nuovo governo. Ora l’unica cosa che il centro sinistra deve fare è accodarsi agli altri partiti e vedere come volge la situazione ed eventualmente fare opposizione seria e costruttiva.
In questo periodo tutta la popolazione è in rivolta a causa delle bollette con cifre dai molti zeri, che non si possono pagare, iniziando dai vari imprenditori di fabbriche, panetterie, ristoranti, alberghi, etc. etc. e dei cittadini che sono esasperati e con i nervi a fior di pelle, perché non ce la fanno ad arrivare a fine mese per gli stipendi che non bastano più nemmeno per l’acquisto dei prodotti di prima necessità, i cui prezzi sono quadruplicati.
Il governo che sta per insediarsi, anche se tiene fede ad attuare il programma già stabilito, innanzitutto dovrebbe rinunciare all’eliminazione del reddito di cittadinanza, che è l’unico sussidio che ricevono i percettori per poter sopravvivere, poi evitare di annullare la legge 194 sull’aborto, e per il momento sarebbe meglio mettere nel cassetto la flat tax a quota piatta 15%, perché questi cambiamenti potrebbero trasformarsi in mine inesplose, e se esplodessero creerebbero danni irreversibili per tutta la popolazione.
Distinti saluti
Giovanni Amore