(Capitolo 2)
FISICA
Inizio la frequenza alle lezioni con Fisica. L’aula della II Clinica medica è grande, ma quando arrivo è già piena e devo accontentarmi di un posto in alto in fondo. L’atmosfera è allegra, liceale: entusiasmo, blocchi degli appunti formato gigante, matite colorate. Già da adesso si notano le solite “superattive” (sono donne) con gli orari delle lezioni e delle esercitazioni scritti in mille colori diversi sulle agende. Le riconosci subito: aria svelta, le più aggressive armate di registratore portatile, cappottone, grossa borsa contenente i faldoni degli appunti, tessera dei mezzi pubblici, diario e lotta senza esclusione di colpi per il posto in prima fila davanti al professore. Quando arrivo le vedo che fanno capannello parlando di corsi ed esercitazioni di cui io non sospetto neanche l’esistenza; un po’ mi danno fastidio, sento dei rimorsi di coscienza, in realtà vorrei strangolarle ma cerco di non darlo a vedere. La lezione si tiene nel tardo pomeriggio, sembra quando facevamo i doppi turni al Liceo e si usciva da scuola alle sette di sera. Per molti che vengono dallo Scientifico la fisica è famigliare, io invece non ricordo nulla di quel poco che ho studiato sul Bignami prima della maturità (e questo ve la dice lunga). Il professore entra in aula con un sorriso panoramico; è un omone grande e grosso, estremamente simpatico, con i capelli tagliati a spazzola tipo il sergente dei Marines dei film. Ha un ottimo approccio umano e spiega bene, ma purtroppo mi accorgo di avere un deficit culturale incolmabile e non riesco a prendere appunti (del mio amore per la Fisica vi ho già detto). Alla fine ci dice che nel corso dell’Anno Accademico faremo dei compiti in classe per presentarci all’esame con un punteggio di base, al fine di facilitare la valutazione. Mi sembra un’ottima idea, per il momento. Non sarà così. Il libro è scritto su quella che sembra carta da pacchi e subito mi accorgo che c’è un problema: molte nozioni teoriche, ma nessun approccio pratico a quello che troveremo nella nostra professione. Insomma, sarebbe bene spiegare come funziona un bisturi elettrico o i principi di un elettrocardiografo o un polmone d’acciaio nel peggiore dei casi, invece si resta sui massimi sistemi, nessuna connessione con la realtà del lavoro.
E questo sarà il problema di tutto il corso di studi; inutile dire, come sento sempre, che l’università deve dare cultura. Io con la laurea ci devo lavorare, avrò a che fare con i pazienti e con le macchine che li tengono in vita, una fisica applicata alla strumentazione che andrò ad usare è fondamentale e almeno come funziona una TAC me lo devi spiegare, invece di chiedermi se la pressione nel sommergibile in immersione è uguale da tutte le parti (sentita ad un esame). Oggi non so se le cose siano cambiate, ma già quando ero al quinto anno la radiologia interventistica faceva cose ottime e sapere come funzionano materiali e protesi sarebbe stato fondamentale. Per non parlare della fisica degli ultrasuoni, ovvero la base di una diagnostica fondamentale come l’ecografia, che dovrò studiare per conto mio quando comincerò ad occuparmi di ecodoppler. Questo difetto di pensare l’università come una torre d’avorio in cui si fa una cultura slegata dalla pratica clinica (in un mestiere in cui la pratica è un buon 70%) sarà la costante di tutto il corso di studi. Ce ne accorgeremo presto.
CHIMICA
Del docente si narrano storie di bocciature a raffica e di esami drammatici (come in realtà per ogni professore di Chimica); lui insegna Chimica e la moglie Chimica organica, pensate un po’ che famiglia pericolosa. Tanto per dirvi il clima gira la voce che al docente di un’altra cattedra siano state più volte tagliate le gomme della macchina e non solo. L’aula è quella semicircolare che mi diventerà famigliare anche per Microbiologia e Igiene, tanto per capirci tipo Boris Karloff in “Corridors of blood”, un film sulla nascita dell’anestesia; la lezione si svolge alle 15 ed è un orario terribile perché il professore è appassionato di termodinamica, una disciplina che ha effetti devastanti sulla mia digestione. Infatti per non tornare a casa nella pausa tra le lezioni vado a pranzo alla mensa universitaria in via De Lollis. Ad essere sinceri non metterei la mano sul fuoco che tutti quelli che entrano siano studenti, ma non stiamo a sottilizzare; un piatto di pasta non si nega a nessuno. Anche perché entrare alla mensa non è roba da cuori teneri; ressa al limite dello scontro fisico, imbuto umano all’ingresso poi tutti in fila con il vassoio in mano. Nonostante quello che si dice (“ahò…ma qua t’avvelenano!”)trovo che il pranzo non sia poi così male, anche perché, per quel poco che si paga, caviale e champagne non lo servono in nessuna parte del mondo; l’importante è prendere cose semplici, magari evitare la carne anche perché la pasta è più facile farla bene che farla male. Due caffè nel vano tentativo di evitare il sonno, sigaretta al tavolo e lungo la strada: tutto inutile. La penombra autunnale dell’aula è irresistibile e crollo con la testa sul banco per svegliarmi quando entra il Professore. E’ un gentleman vecchio stampo, spiega con calma e dà molte cose per scontate, generalmente proprio quelle che io non so. La frase chiave, al termine di una formula matematica, è sempre: ”…ma spiegarvi queste cose mi sembra quasi offensivo”.Apprezzo la sensibilità, tuttavia mi rendo conto che se la Chimica non mi ha mai entusiasmato (sono stato bocciato al II Scientifico) difficilmente ora potrà compiersi il miracolo. Il libro l’ha scritto lui, ma potrebbe averlo scritto chiunque tanto io non ci avrei capito niente lo stesso; carta da pacchi tipo di quello di Fisica, formule lunghe mezza pagina, correlazioni con una qualunque pratica clinica futura meno di zero. Provo a cercare le cose che spiega a lezione sul libro, ma non le trovo e parliamo di un libro che ha scritto lui. Per il capitolo di termodinamica mi occorrerebbe la stele di Rosetta. Ma a che cosa mi servirà poi questa termodinamica (più “calore umano” con i pazienti ?) Domanda senza risposta. Però c’è sempre qualcuno a cui va peggio; Vittorio sul “Silvestroni” di Chimica (il suo libro di testo) rischia l’esaurimento nervoso finch° qualcuno non gli fa notare che il libro non è altro che un adattamento dello stesso testo per la facoltà di Ingegneria. Ecco perché… (non ci capiva niente).
ANATOMIA
Il Professore ci chiarisce subito le idee: “Se prendessimo un asino e lo portassimo in giro per tutti gli Istituti della Facoltà di Medicina, alla fine la Laurea sarebbe in grado di prenderla pure lui “. Mi sembra un darsi la zappa sui piedi e allora di chi è la colpa? Mica sono io il docente. A seguito del benvenuto inizia la lezione: il sistema nervoso. Dopo mezz’ora mi è più chiaro di chi è la colpa; proverò a capire qualcosa sul libro. Un altro docente di Anatomia è ancora più esplicativo; “l’anatomia è una materia cretina, non si può discuterne, quello che c’è c’è”. Trovo questa affermazione di gran lunga più sensata e decido di orientarmi per il solo studio del Chiarugi (il nostro testo) al mio domicilio, senza frequentare le lezioni. Il Chiarugi è un libro che mi piace subito; si tratta di un testo storico che risale agli anni venti, il solo titolo “Istituzioni di Anatomia” incute una certa soggezione. Il volto dell’Autore appare sulla controcopertina: barbone e baffi bianchi, aria triste e mite, grande somiglianza con Johannes Brahms, non vedo il bastone e la mantellina nera ma sicuramente da qualche parte ci sono. Il testo purtroppo è molto particolareggiato e pesante anche se completo, sicuramente troppo per degli studenti; distinguere tra le cose fondamentali ed i particolari che possono essere utili ad uno specialista non è facile, impantanarsi su una descrizione è un attimo. Seguo anche le esercitazioni; speravo si svolgessero sul cadavere (beata ingenuità, quelle le faceva Karloff in “La Jena” mi devo essere confuso), ma si tratta di diapositive, di preparati istologici e di qualche articolazione; non che mi aspettassi la lezione di anatomia di quel pittore fiammingo, ma almeno…. Il problema vero è un altro; l’anatomia non si impara sui libri, ma sul cadavere; purtroppo in Italia la pratica della sala incisoria, ovvero la dissezione sul cadavere a fini didattici, è stata proibita dai Patti Lateranensi e si pratica solo di nascosto alle cinque di mattina, neanche fossimo carbonari alle riunioni della “vendita” per un attentato agli austriaci. E questo è grave specialmente per gli aspiranti chirurghi, che si trovano a dover imparare l’anatomia e gli interventi sui viventi, cosa che secondo me dovrebbe spingere la gente a scendere per la strada a protestare; ma di queste cose non si parla e si capisce anche perché. Anni dopo, da specializzando mi trovai a fare “sala incisoria” insieme ad un collega che, diventato aiuto con un concorso funambolico, dovendo fare le guardie da “primo” aveva fretta di prendere conoscenza con l’anatomia del fegato e degli organi retroperitoneali, in modo da poter lavorare con più sicurezza in caso di urgenza. Ci svegliavamo alle quattro ed arrivavamo in camera mortuaria alle cinque e lì iniziava la pratica. Il tecnico di sala incisoria era un ottimo perito settore, di conoscenze anatomiche precisissime e con lui si erano formati molti chirurghi, che ne avevano grande rispetto. Pensate solo che il grande Ascenzi aveva come allievo un tecnico settore che si laureò poi in medicina, un omone grande a grosso che dopo migliaia di autopsie aveva un’esperienza (sicuramente temprata da una bella intelligenza) che aveva fatto dire al maestro: “se non so qualcosa lo chiedo a lui”. E quando fu il suo turno di superare l’esame di anatomia patologica, Ascenzi gli fece delle domande terribili ed alla fine si alzò e gli disse: “adesso sei più bravo di me“. Altri tempi ovviamente e altri uomini. Quanto a noi arrivavamo nel sotterraneo con i cadaveri sulla lastra di marmo e iniziavamo ad esplorare l’addome, seguendo nelle nostre dissezioni alcune regole che dovevano essere assolutamente rispettate; nessuna asportazione di visceri, niente tagli sul volto, sul collo o sugli arti. Mi ricordo un freddo terribile, le mani con i guanti di gomma pesante che sollevavano gli organi osservando le connessioni vascolari, la paura di schizzarsi con siero o sangue e soprattutto la paura di bucarsi con la forbice o un ago, le infezioni da germi putrifici non sono certo uno scherzo. Quello che è incredibile è come qualcuno riesca a operare senza una solida preparazione di medicina operatoria, che viene fatta di straforo ed in segreto, quasi si trattasse di un crimine. Certo, oggi ci sono mille occasioni che offre la multimedialità, ma la conoscenza dell’addome con un maestro che illustra e spiega, a mio avviso, è insostituibile. Purtroppo i risultati si vedono. All’esame di anatomia succede qualcosa che sarà un mio dispiacere per molti anni: lascio il pianoforte. Per carità, nessuno ne sentirà mai la mancanza nelle sale da concerto, ma in una famiglia di melomani come la mia la scelta di suonare anche solo da dilettante era stata quasi obbligata. Il pianoforte lo suonava da sempre papà e in casa avevamo una collezione di dischi con cui avreste potuto allestire un negozio. I vecchi 33 giri, con le note critiche scritte dietro le copertine di cartone lucido come usava una volta, ancora li conservo gelosamente e li ritengo gioielli di famiglia. Già dal Liceo avevo preso ad appassionarmi alla musica classica e mentre le gente ascoltava Santana e Pink Floyd io mi dedicavo a tutta la letteratura pianistica dell’otto-novecento, insomma un vero dropout. Da qui all’idea di mettermi a suonare il passo era stato breve anche perché in casa avevamo il pianoforte e per l’occasione ne comprammo uno nuovo. Andavo regolarmente a lezione da un maestro, ero portato, ma poco disciplinato e poi il solfeggio per me era una vera tortura. Però la voglia era tanta e negli anni del Liceo e nei primi anni dell’Università continuai a suonare, da dilettante, certo, con una passione che poi negli anni non è mai venuta meno. E a quell’epoca ebbi la fortuna di ascoltare alcuni grandissimi dal vivo, solisti che avevo avuto modo di sentire solo nei dischi; tra tutti ricordo Rubinstein all’auditorium di vVa della Conciliazione, che si esibì in una memorabile serata con il concerto di Schumann ed il Quinto di Beethoven, una performance notevolissima per una persona che aveva attraversato il secolo con le sue interpretazioni. E poi all’Olimpico, al quartiere Flaminio, un indimenticabile Rudolf Serkin in Beethoven e Weissemberg nelle variazioni Goldberg, nel corso di un programma da far tremare i polsi a chiunque; Weissemberg veramente suonava come una macchina elettrica, la cosa impressionante era come riuscisse ad affrontare i passaggi più ostici con una calma olimpica ed una naturalezza impressionante. Non per nulla Horowitz un giorno telefonò alla Carnegie Hall annunciando la sua indisposizione a suonare il terzo concerto di Rachmaninoff e dicendo “vi manderò un giovane che è più bravo di me “. Ed era Weissemberg, che fece di quel concerto uno dei suoi cavalli di battaglia, molto prima che il film “Shine” lo rendesse popolare in tutto il mondo. Se pensate che il pianoforte e la chirurgia non abbiano molto in comune forse non sapete che il grande chirurgo Billroth era una valentissimo pianista, che poteva vantare una lunga amicizia con Johannes Brahms. Billroth rimase a lungo incerto tra la carriera di concertista e quella di chirurgo, fortunatamente per noi scelse la seconda, regalandoci i suoi interventi di gastroresezione che non solo sono stati la colonna portante della chirurgia addominale per anni, ma hanno dato un contribuito fondamentale alla terapia dell’ulcera gastrica, prima che arrivassero gli antiacidi. Si narra che Brahms gli avesse dedicato i due quartetti dell’opera 55, che gli amici scherzosamente chiamarono “Billroth uno e Billroth due”, così come gli interventi che lo resero famoso. Anch’io quindi scelsi la strada della chirurgia. Ovviamente con risultati molto diversi.