La Modica di Enzo Belluardo

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Finito il pranzo con Ibn Jubayr, sentiamo provenire dall’esterno un grande clangore di tube e tamburi. Usciamo a guardare e ci appare un corteo con stendardi di seta ricamata: è il re Guglielmo II in persona col suo seguito venuto a visitare i progressi nella costruzione del nuovo palazzo. Ci sono i consiglieri che attorniano il re e guardie che liberano la strada per il loro passaggio. Tra i consiglieri, il nostro sguardo è attirato da uno in particolare; si trova alla destra del re e la sua faccia ha un che di familiare.
Makaria mi guarda e dice: ”Non ti somiglia a Gaius Leves Pedes?”
Al mio assenso ci avviciniamo quanto più è possibile e lo chiamiamo. Lui ci guarda e, riconoscendoci, chiede al re il permesso di venire da noi.
“Voi? Come siete arrivate qui?”
“Tu, piuttosto, dicci cosa ti è successo.”
“Oh, non è una storia lunga… Dopo la vostra scomparsa dalla casa di Silviano, la vecchia cieca si è girata verso di me e Gheorgos Octo (aveva forse avvertito il nostro desiderio di viaggiare nel tempo); ci ha toccato la fronte col suo olio sacro e ci ha detto che la nostra destinazione era il futuro. Ci siamo trovati entrambi qui a Balarm, all’interno dell’attuale palazzo reale e le nostre competenze latine, io per il Diritto, Gheorgos per la sua esperienza di agrimensore e costruttore, ci hanno consentito di entrare nelle grazie del re. Pensate, il progetto di questo nuovo palazzo è suo. Ora che ci siamo ritrovati, voglio che voi e il vostro accompagnatore arabo veniate a corte con me. Gheorgos sarà contentissimo di vedervi!”
“Vi siete liberati facilmente della vostra religione politeista?” chiede Makaria.
“Adesso è in auge questa nuova visione e, né io né Gheorgos, siamo eroi. Viviamo qui e stiamo benissimo, il re a corte accoglie tutti, ebrei, greci, bizantini e musulmani. Andiamo ora, stanno preparando un banchetto per onorare l’erede al trono bizantino, sfuggito alla morte ad opera dell’usurpatore. Forse il re muoverà guerra contro Costantinopoli.”
Ci avviamo insieme al corteo che sta tornando a palazzo mentre Gaius spiega al re che ci saremo anche noi tra i convitati. Camminando tra gli inchini e le genuflessioni del pubblico ai lati della strada, racconto a Gaius il nostro viaggio nel passato remoto e l’incontro con Anhur che ci ha concesso di arrivare a Palermo. Stupore, incredulità, ammirazione, sono le emozioni che leggo nei suoi occhi.
Entriamo nel palazzo reale e rimango stupita del lusso: sete policrome intessute d’oro, serici stendardi con l’effigie del leone e della palma, simbolo della potenza normanna, musici a scandire il percorso fino alla grande sala rivestita di marmo verde e dal pavimento di maioliche policrome. Prendiamo posto accanto a Gaius alla destra di re Guglielmo. Entra la regina Giovanna d’Inghilterra, carica di gioielli, pietre preziose e mantello bordato di ermellino; si siede accanto allo sposo e all’erede di Costantinopoli. Così inizia il sontuoso banchetto: uova ripiene (simili a quelle che avevo gustato a Rodi presso Timachida), polpette sferiche di triglie sfilettate e impanate, grosse olive verdi ripiene di alici intervallate di lauro e infilzate in spiedi d’argento. Un antipasto che celebra la fertilità e la perfezione. Arrivano le altre portate: a ciascun commensale una torta salata farcita di cipolle, tonno e menta fresca, un pescespada rosolato intero (mi chiedo quanto grandi siano le loro padelle per rendere gustoso questo pesce presentato con tutta la coda e la spada!), spatole arrostite e infilzate con eleganza in spiedi che sembrano fioretti, finocchi gratinati e, infine, una scenografica costruzione di pasta da pane a forma di duomo (Gaius mi dice che è un modellino del Duomo di Palermo, progettato da Gheorgos). Il re si alza, impugna la spada e trancia la struttura; ne escono volando tortore e colombe tra gli applausi dei convitati. Poi è la volta di bevande e gelatine di arance, limoni e mandarini con la testa di leone impressa a rilievo.
Alla fine del banchetto il re invita gli ospiti a seguirlo nell’īwān per conversare in libertà. Non vedo l’ora di parlare con Gheorgos e congratularmi per il suo genio architettonico.
Una vita. Di donna e d’artista ricca di soddisfazioni, premi, amori, rancori. La Lollo è stata, insieme a tante altre (Loren e Mangano soprattutto) l’archetipo della bellezza italiana, osannata e voluta come protagonista da registi celebri quali Blasetti, Germi, De Sica, Lattuada.
Chi ha memoria degli anni ‘50, ricorderà anche la sua intensa partecipazione ai fotoromanzi di Grand Hotel e Sogno. Personalmente sono testimone di quanto queste riviste girassero tra le abitanti delle palazzine, prestate a turno alle signore e alle ragazze (allora si chiamavano signorine…) che aspettavano con ansia di settimana in settimana le nuove puntate di “Anna Karenina” e “Notre Dame de Paris” con la Lollobrigida-Esmeralda.
Ma era il cinema il luogo magico: con mio padre ogni pomeriggio si andava al Cinema Italia di Scicli per film che arrivavano fuori tempo massimo dalle prime nazionali; non importava alla ragazzina di 6 anni che allora ero io. Lì si vedeva cosa accadesse nel mondo con le Settimane INCOM, lì si vedevano attrici e attori che agivano come se fossero persone reali. E si sognava…
Ecco perché Gina è rimasta la Bersagliera, anche dopo essere stata Lina Cavalieri ne “La donna più bella del mondo”, perché l’Italia delle due pellicole “Pane, amore e fantasia” e “Pane, amore e gelosia” di Comencini era così, ingenua e genuina, aperta alla voglia di ricostruire le proprie fondamenta tra macerie belliche e povertà endemica. La Bersagliera ribelle e sentimentale, forava lo schermo con le forme e il cuore prorompenti della popolana che sa anche pensare, pur vestita di stracci.
Pane e fantasia, tanto tempo prima di pane e nutella.
Dopo lei si è realizzata come scultrice, fotografa viaggiando, intervistando Fidel Castro, provando a candidarsi in politica, assumendo lentamente l’aspetto di un’icona: occhioni sgranati, capelli cotonati, trucco e gioielli importanti.
Sempre con Comencini fece la sua esperienza televisiva nel “Pinocchio” del 1972 trasformandosi, da Bersagliera, in Fata Turchina e restando nell’immaginario italico con quei capelli azzurri.
Ora, a 95 anni, è voluta tornare nel paese natio, Subiaco, dove riposerà per sempre. Tutto il resto non conta più, è solo polvere. Di stelle.
Marsa
A chi è di stomaco debole o ha problemi cardiaci, si consiglia caldamente di non leggere quanto segue. Potrebbero assalirlo incubi notturni in agguato, paure sepolte nell’immaginario infantile quando, nonostante i divieti delle madri, si ascoltavano racconti su i patruna oluocu, su case possedute e infestate, neonati inspiegabilmente trovati a terra con i capelli intrecciati che non si dovevano toccare perché opera di un fantasma che aveva adocchiato l’infante e lo considerava suo. E tanti spiriti burloni che spostavano oggetti, spegnevano le candele o le moltiplicavano a piacimento, accanto ad altri pericolosamente diabolici che, con uno sgambetto invisibile, facevano ruzzolare dalle scale tra sghignazzi e pernacchie.
Nella provincia iblea c’è una vera e propria saga di apparizioni, corpi diafani si materializzano in luoghi disabitati, case ricostruite dopo il sisma del 1693 sulle macerie della distruzione che ha inghiottito cadaveri senza la pace di un funerale; essi ritornano con rumore di catene e ululati da far rizzare i capelli. Fantasmi femminili come la Dama biancovestita (assassinata dal suo amante geloso nel XVIII sec.) che vaga per le stradine di Ibla piangendo; ma anche tante monache: a munachedda in fuga che salta i muri a secco a Scicli, in contrada Cuturi, quella che si affaccia da una finestra della chiesa abbandonata dello Spirito Santo quando passa la processione della Pietà di S. Maria la Nova il Venerdì Santo.
L’invenzione delle tradizioni orali su questo argomento è ricchissima, specie dove sono state trovate antiche monete d’oro, la cosiddetta truvatura; sono luoghi impervi, custoditi da fantasmi che richiedono prove mortali. A Munsuvili, pare si svolga un mercato notturno di fantasmi che vendono frutta: i fortunati acquirenti il giorno dopo scoprono che le arance sono d’oro, altri (gli sfigati) trovano chiocciole vuote al posto dei soldi ricevuti come resto.
È come se, sotto la realtà, ci fosse un mondo fluttuante di presenze occulte, spesso malvagie. Ma perché? Perché vederla come una realtà aliena quando la morte è pane quotidiano? Perché leggere il mondo dei morti solo in maniera negativa?
Spero che qualcuno di voi, lettori coraggiosi, abbia visto il bel film “The Others” con la grande interpretazione di Nicole Kidman, dove tutto è ribaltato perché il punto di vista è quello dei fantasmi mentre “gli altri” sono le persone reali che invadono ciò che appartiene a loro.
C’è un’antica giaculatoria siciliana da recitare quando si deve passare la notte in un letto e in una casa sconosciuta, “Diu è suli Diu è luna; sugnu figghiu ri Gghesu e ri Maria, nenti ci ha putiri supra ri mia” (Dio è sole Dio è luna; sono figlio di Gesù e di Maria, niente ha potere sopra di me).
Se dopo aver letto questo pezzo sentite puzza di zolfo e rumori sospetti, recitatela e buonanotte ai suonatori. Oppure ingaggiate i ghostbusters…
Marisa Scopello
“Santo subito!” gridava il popolo davanti alla salma di Benedetto XVI, il Papa Emerito. Probabilmente erano le stesse persone che durante il suo pontificato rimpiangevano Giovanni Paolo II, le stesse che a Ratzinger imputavano il passato giovanile nella Luftwaffe, che lo accusavano di coprire i preti pedofili, che, in pratica, lo ritenevano capace delle peggiori nefandezze. Insomma, per essere amata una persona deve morire.
E’ al di là dell’ipocrisia, è qualcosa che sconfina nella crudeltà.
Nei confronti del Papa? No di certo, perché questa forma di beatificazione di colui che non c’è più avviene nei confronti di chiunque. Muore un uomo politico che in vita ne ha combinate di cotte e di crude? Che gran brava persona era stata! Quanto amore aveva avuto per il Paese! Come si era sempre curato del benessere del popolo! Tutte bugie. Perché? Parafrasando il titolo di un film, la morte ti fa bello? Non dovrebbe essere così, invece la gente finge che lo sia. Finzione. Sempre finzione.
Se questa reazione può apparire semplicemente ridicola, ci sono casi in cui avvertiamo la cattiveria in fondo all’ipocrisia.
Ne abbiamo un esempio recente ed eclatante a Modica, solo uno fra tanti (ma proprio tanti!): un imprenditore che molto aveva dato alla città, che si era assunto il carico della squadra locale quando questa era sull’orlo del tracollo (e l’aveva fatto sperando nell’appoggio della città, appoggio che non c’era mai stato), eppure l’aveva portata in alto. In parte per questo sforzo economico, in parte per qualche valutazione sbagliata nel momento in cui tutta l’Italia scivolava nella crisi, si era trovato a non poter far fronte a tutti gli impegni assunti. Tutti quei modicani che dicevano di amarlo tanto quando regalava loro l’orgoglio della vittoria nel calcio, quei modicani che si inchinavano davanti all’imprenditore di successo, quegli stessi modicani gli hanno voltato le spalle quando si è trovato in difficoltà per poi versare lacrime di coccodrillo quando si è sparsa la notizia che si era buttato dal ponte Guerrieri.
Crudeltà e vigliaccheria. Sì, perché nell’ipocrisia alberga una grandissima dose di viltà. La viltà che fa piegare la schiena davanti ai potenti e voltare le spalle di fronte a chi è caduto in disgrazia anche se, spesso, per eccessiva generosità.
Purtroppo è questa una caratteristica dell’essere umano, una delle tante, troppe, caratteristiche che non ne fanno certo un essere superiore fra le tante razze animali che popolano il nostro pianeta.
Di chi è morto puoi dire ciò che vuoi perché lui non ti può rispondere, quindi tanto vale far finta di rimpiangerlo perché non ti può rinfacciare la cattiveria con cui l’hai trattato in vita, se invece è vivo può chiederti di dimostrargli il grande amore per lui che vai cianciando e questo ti può richiedere fatica o, peggio ancora, di sacrificare un po’ del tuo denaro, quindi meglio non amare nessuno, invece quando muore… se po’ fa’!
Col mese di gennaio tutti ci mettiamo a raccontare un futuro che poi, durante l’anno, rimandiamo all’anno nuovo.
Tra guerra e congiuntura, a mio avviso, c’è spazio per passi avanti.
Se l’obiettivo è un rapido calo della dinamica dei prezzi in Europa verso il 2% – obiettivo della Banca centrale europea – allora si vedono oggi all’orizzonte tre rischi da non trascurare.
Il primo è che i lavoratori e i pensionati chiedono di essere indennizzati dall’urto dell’inflazione che, a ragion del vero, negli ultimi diciotto mesi ha corroso o falcidiato il loro potere di acquisto.
Il secondo rischio è che qualcosa del genere possa riguardare gli affitti immobiliari: anche qui diciamo che per ora i prezzi in Italia sono relativamente stabili.
Il terzo rischio, molto concreto, è che la domanda energetica crescente faccia schizzare in alto il costo del gas naturale e liquefatto nel corso di questo 2023.
L’economia – in quest’ultimo anno – si è arricchita di un nuovo neologismo “policrisi”. Ma che cos’è?
La “policrisi” si riferisce a un contesto nel quale più crisi – energetiche, militari, sanitarie ed economiche – si intrecciano, causando danni ben maggiori di quelli che produrrebbero rispetto a sistemi meno interconnessi.
Conseguenza della policrisi, purtroppo, è l’incertezza che si riflette nelle previsioni per il 2023 dell’economia del nostro Paese.
Purtroppo le tensioni geopolitiche sono le grandi incognite dei prossimi mesi. L’economia di fronte a queste prospettive prova a orientarsi sulle principali variabili con l’analisi di tendenze e pericoli.
Insomma, in Europa come negli USA le politiche delle banche centrali sono orientate ad abbattere l’inflazione galoppante e a riportarla alle percentuali antecedenti il Covid e la guerra russo-ucraina (cioè al 2%).
Quindi nel 2023 vivremo un periodo di stallo. In attesa dell’anno successivo. Sempre con un occhio alle novità che non sono di certo poche.
L’inflazione è un’onda lenta, che avanza e recede anche lentamente.
Tanto più che gli ostacoli al commercio globale e il diffuso nazionalismo economico continueranno, purtroppo, ad alimentarla.
A essere penalizzate in misura più rilevante sono soprattutto le fasce più deboli della popolazione. Questo è legato in modo particolare ai carburanti che hanno un effetto “diretto” e uno “indiretto” dovuto ai trasporti e all’intermediazione.
Sono tante, purtroppo, le conseguenze del rialzo dell’inflazione, prima fra tutte l’aumento del divario tra ricchi e poveri.
Insomma l’inflazione è un cancro che corrode la moneta in modo significativo diminuendone il potere d’acquisto.
Da qui si evince che se sperano nel dietrofront dei tassi i mercati finanziari saranno profondamente delusi.
Il tasso di inflazione in Italia oggi? L’ultimo dato è quello riferito a novembre 2022 uguale a 11,8%.
Da qui deduciamo che l’inflazione si manterrà alta, anche se ha raggiunto il picco, e le banche centrali non hanno ancora finito con i rialzi.
Il governo Meloni con la prima legge di bilancio ha provveduto ad abbassare il cuneo fiscale di due e tre punti percentuali per i redditi fino a 35 mila euro per aiutare i dipendenti ad avere una busta paga più corposa, anche dopo. E’ una scelta che va nella giusta direzione.
Di contro, invece, per quanto riguarda la rivalutazione delle pensioni prevista nella legge di bilancio, del governo Meloni, questa punisce fortemente i pensionati sopra i 2500 euro lordi per una perdita che, in 10 anni, va dai 13mila euro agli oltre 115 mila per chi percepisce un assegno di 10 mila euro lordi, meno di 6 mila netti.
Pensavamo che il governo Meloni seguisse le scelte di Draghi. Invece ha usato le pensioni come bancomat.
In questo caso il governo Meloni ha fatto il primo errore, insomma una Robin Hood all’inverso.
Per concludere, nei prossimi 10 anni questi pensionati meritevoli, oltre a sobbarcarsi il grosso dei 56 miliardi di Irpef sulle pensioni, si vedranno levare altri 45 miliardi circa, alla faccia del merito e del senso del dovere.
Meno male che il nostro è un grande Paese, a prescindere.
Salvatore G. Blasco
Cavolfiore & Friends al gratin
Ingredienti:
1 cavolfiore viola, 2 patate americane rosse, 3 porri 2 cipollotti, 3 finocchi, una tazza di frutta secca mista (noci, mandorle, anacardi, semi di zucca, di girasole, di Chia, di lino), 1/2 tazza di parmigiano, 1/2 tazza di pangrattato, q.b. di olio evo, sale e pepe
Preparazione:
dividere il cavolfiore a cimette, tagliare a spicchi i finocchi e a cubetti le patate, aggiungere i porri e i cipollotti affettati e condire insieme tutto con olio, sale, pepe e un paio di cucchiai di parmigiano. Mettere tutte le verdure in una pirofila unta con olio e cosparsa di pangrattato, unire la frutta secca, il formaggio, condire con olio e infornare a 180 gradi per circa trenta minuti, 10 minuti prima di spegnere cospargere con il pangrattato, mescolare bene e completare la cottura fino a doratura. Volendo si possono unire delle erbe aromatiche a piacimento.
Nelle ultime settimane è rimbalzata sul web la notizia di una famiglia finlandese che, dopo avere abitato e vissuto per due mesi in Sicilia, isola che aveva scelto e visto come un bel luogo per far crescere e istruire i propri figli, non gradendo però, in seguito, il modo di vivere e di fare degli isolani e neppure il metodo usato nelle scuole siciliane, ha fatto le valige ed è partita per la Spagna, un paese anche questo caldo e molto somigliante per clima alla Sicilia.
Il dito puntato sul metodo scolastico non è piaciuto a tanti che con disprezzo hanno criticato i poveri malcapitati. Pochi sono stati coloro che hanno dato loro ragione, anche perché i siciliani sono così orgogliosi di natura che pur di ammettere che le cose non vanno bene, abbassano la testa e si accontentano di ogni mancanza, come fosse pane quotidiano.
Parliamoci chiaro.
Non è la scuola ad essere malata in Sicilia e in Italia.
Non sono gli uffici pubblici dei Comuni a non funzionare perfettamente.
Non sono gli ospedali pubblici a non essere all’altezza dei bisogni dei cittadini.
Non è lo sport, non è il teatro, non è il cinema, non sono le strutture di ascolto e non sono i singoli professionisti che vi lavorano all’interno e che si dedicano ad istruire, ad ascoltare, a prestare il loro operato. Certamente molti non sono idonei ma si prendono lo stipendio, tanti però ci stanno per merito e non guadagnano il giusto compenso ma hanno le mani e le voci legate, devono dare il minimo indispensabile, possono gridare e sentirsi superiori davanti alla povera e umile gente ma non possono lamentarsi mai con chi ha deciso così.
Se un colpevole c’è, quello è lo Stato, attuale e passato, speriamo non futuro, in cui viviamo, dove tutto ci viene dato per buono e tutto ci viene negato perché cattivo.
La famiglia finlandese ha scelto di non restare, perché non può combattere una cultura sciatta e schiva, che ci viene imposta nel peggiore dei modi, con l’accettazione.
Molti dei nostri figli sono scappati prima di loro verso mete più sicure e limpide. Non c’è posto per loro in nessuna struttura culturale pubblica o privata, darebbero solo fastidio agli assetati di potere mettendo in cattiva luce tutte le incompetenze.
Anche loro hanno scelto, come la famiglia finlandese, di cercare e trovare un posto migliore che li completi ma nessuno pare accorgersi della loro mancanza, dei figli rimasti nessuno parla e di quelli che muoiono ne fanno un fascio.
Questa è la nostra Sicilia: lo specchio attuale del nostro non vivere.
Sofia Ruta
Dopo circa 3 lunghi anni passati in compagnia del coronavirus, ancora nessuno ha imparato come potersi difendere da questa micidiale malattia, infatti nemmeno quelli che hanno assunto la terza dose hanno potuto evitare il contagio. Quanto alla sanità, essendoci stato un rallentamento del virus per alcuni mesi, ci sarebbe stato il tempo necessario per provvedere in molti ospedali di tutta l’Italia la sistemazione di alcuni presidi ospedalieri, al fine di ospitare i pazienti colpiti dal covid in modo più civile, e non pensarci sempre quando siamo tutti con l’acqua alla gola, e quindi costretti a fare le cose in fretta, perché i dottori e gli infermieri devono fare dei turni stressanti e devono fare salti mortali per poter curare al meglio i pazienti ricoverati.
Il giorno 6 gennaio alle ore 21,00 per un malore improvviso sono stato ricoverato in un presidio ospedaliero di Modica, sono risultato positivo al covid 19 e sistemato assieme ad altri due pazienti in una stanza e una barella da me occupata dal primo giorno di ricovero, senza nessun lenzuolo perché non ne avevano di scorta, e per tre giorni ho dormito sopra la plastica della barella stessa. Le lenzuola le ho avute dopo il 4° giorno prima di essere dimesso. Il colmo è che io al momento delle dimissioni ero ancora positivo, mandato a casa solo con la terapia, viene esclusa l’assistenza del medico di famiglia, e dovrebbe assistere solo il personale dell’UCA di Pozzallo, dove, con tre linee telefoniche, nessuno risponde. Io ero già stato 6 giorni acasa.
Ritornando all’anomalia della stanza, questa era sprovvista di campanelli per poter chiamare gli infermieri quando avevamo bisogno, in oltre si aspetta ancora che arrivi tutto l’arredamento necessario, perché a tutt’oggi non ci sono letti, comodini, tavoli e armadietti per gli indumenti, in questo modo i borsoni vengono sistemati per terra sul pavimento, riempiendosi la polvere e creando fastidio all’inserviente per la pulizia giornaliera e al personale che distribuisce le pietanze; il vassoio lo appoggiavano sopra il letto per mancanza di tavolo e, finito di mangiare, a terra, questo è l’igiene che si mantiene in una struttura sanitaria, proprio in questo periodo che si dovrebbero evitare ulteriori contagi.
Per circa tre giorni non c’è stata carta per asciugarsi le mani, carta igienica e sapone nel bagno.
Ovviamente non posso sapere se nelle altre stanze la situazione era la stessa.
Questo presidio è uno dei tanti sparsi in Italia, a Modica è nelle strutture sopra il pronto soccorso dell’ospedale Maggiore Nino Baglieri, gestita dall’ASP 7 di Ragusa.
Queste strutture ogni tanto dovrebbero essere controllate da parte dei NAS, e trovandole in tali condizioni dovrebbero sanzionare i responsabili, anche se appartengono dell’alta sfera sanitaria, in modo da far rispettare nel migliore dei modi l’accoglienza dei pazienti che pagano le tasse.
Con osservanza
Giovanni Amore