In certi giorni festivi primaverili, quando Modica si lascia accarezzare dal vento tiepido e il sole promette già un’estate precoce, è bello vedere lungo il Corso capannelli di turisti, alcuni seduti pigramente sulle scalinate, altri affannati a guadagnare la cima della scalinata di S. Giorgio, e altri ancora in una caffetteria a gustare granite e altre imperdibili specialità dolciarie. E’ bello perché ci riempie di orgoglio, come quando si apre la casa a un ospite di riguardo, e anche perché fino a un paio di decenni fa l’estremo lembo della Sicilia era sistematicamente escluso dagli itinerari turistici, tanto da determinare la convinzione collettiva che le nostre città non potessero competere con altri siti più conosciuti. Sarà stato merito dell’ U.N.E.S.C.O., o dell’effetto Montalbano, di fatto oggi Modica piace ad un numero sempre più folto di visitatori, molti dei quali decidono di comprarsi una casa vacanze, magari scavata nella roccia e rigorosamente con vista mozzafiato sul panorama urbano. Inerpicata su costoni rocciosi dominati da un “castrum” e percorsi da intricate stradine a nastro che si dipanano fino a raggiungere il piano, la città testimonia, assieme alle tracce gotiche sopravvissute, la sua origine medievale, ma c’è di più: è l’inconfondibile, sfarzosa impronta barocca, erede di una storia complessa e ricca di stratificazioni.
Dopo l’apocalittica devastazione del 1693, accanto ai problemi sociali, economici, umani, si pongono le basi di un ripensamento delle soluzioni urbanistiche in tutto il Val di Noto. Il duca di Camastra, nominato luogotenente dal vicerè, è chiamato a mettere in moto la macchina della ricostruzione e a mediare tra due opzioni: quella di ricostruire le città ”ab novo” secondo criteri più moderni e razionali, e quella di operare un rinnovamento “in situ”, soluzione caldeggiata dal governo centrale per arginare i costi. A parte l’eccezione di Noto, quasi tutte le città, tra cui Modica, risorgeranno dalle proprie ceneri.
Negli anni immediatamente seguenti al sisma, sulla spinta dell’enorme domanda di edifici religiosi, gli architetti si porranno in continuità con la tradizione cinquecentesca e secentesca: piante basilicali, facciate rettilinee divise in due ordini, decorazione ricca ma di superficie. Il duomo di S. Pietro ne costituisce l’esempio più imponente. Col passare del tempo si assiste però ad un progressivo aggiornamento, per l’assimilazione degli apporti esterni ma anche per il contributo di una personalità che si imporrà in tutto il Val di Noto, quella di Rosario Gagliardi. Grazie a lui il barocco nostrano acquista una cifra inconfondibile, distinguendosi dall’esperienza torinese, leccese, palermitana. Non va poi sottovalutata l’attività delle maestranze locali,“magistri fabrorum “, e “lapidum incisores” per lo più sconosciuti, autori di un apparato decorativo che, nel quadro della cultura controriformistica, doveva rinforzare la funzione celebrativa della Chiesa e, nei palazzi civili, il prestigio dei proprietari: pensiamo ai beffardi mascheroni che ci osservano dall’alto dei balconi. Ma c è un’altra alleata in questa ricostruzione della bellezza: la pietra locale, quel calcare tenero che, oggi come ieri, si tinge di rosa nei tramonti estivi. E infine, la stessa morfologia del territorio, impervio e scosceso, si presterà, con i suoi dislivelli e le sue irregolarità, a soluzioni di scenografica suggestione.
Il barocco siciliano, specie quello delle grandi emergenze architettoniche, a parte l’esuberanza decorativa, non guarda tanto al gusto spagnolo quanto alle vicende romane del Bernini e del Borromini. Rosario Gagliardi, che forse aveva visitato personalmente Roma, si dimostra profondo conoscitore dei trattati. Nominato “ingegnero della città di Noto”, vi applicherà un piano urbanistico razionale riconducibile a quello romano inaugurato da Sisto V, e a Noto compirà gran parte del suo percorso, fino a giungere alla piena maturità nella chiesa di S. Domenico.
Qui troviamo la sintesi delle sue cifre stilistiche: l’uso di colonne libere, la pianta centralizzata, l’affaccio scenografico, la facciata ”campanile”, in cui la cella campanaria viene posta in cima ad ordini sovrapposti raccordati da volute, e soprattutto l’uso della facciata ondeggiante. Ispirandosi al Borromini attraverso la mediazione del Guarini nell’Annunziata di Messina, il Gagliardi opera sulla massa muraria stravolgendo le tradizionali soluzioni rettilinee, avvolge, comprime e distende, alternando convessità e concavità. L’elemento plastico viene accentuato rispetto a quello pittorico e dialoga con lo spazio interno. Questo non sminuisce l’efficacia della componente decorativa: il viluppo dei motivi fogliacei e floreali rinforza il trionfo della linea curva: lo sguardo viene catturato dal capriccio dei capitelli compositi e delle volute di raccordo, mentre le citazioni classiciste – colonne, lesene, timpani – vengono stravolte allo scopo di produrre un coinvolgimento emotivo, così come gli artifici dell’illusorietà, tabernacoli che si fingono chiese, cartapesta, marmi mischi, stucchi dorati.
Mentre il progetto del Duomo di S. Giorgio di Ibla è uno dei pochi di cui conosciamo con certezza la paternità gagliardiana, lo stesso non si può dire del S. Giorgio di Modica, dove la sua presenza è testimoniata solo dalla chiesa annessa al Collegio Gesuitico, sobria e forse incompleta. Assegnato frettolosamente al Gagliardi, oggi il Duomo è attribuito a Francesco Labisi, almeno per il primo ordine. Questa complicata ricostruzione è frutto di una serie di modifiche rispetto al progetto originario, il che comporta una minore coerenza e omogeneità rispetto alla chiesa di Ragusa. Anche se si ravvisano importanti riscontri col linguaggio del Gagliardi, qui la mole del Duomo è enfatizzata, le navate da tre diventano cinque, l’impianto curvilineo diventa più vigoroso, e soprattutto la spinta ascensionale del partito centrale viene accentuata e svetta vertiginosamente verso il culmine della torre campanaria. Indubbiamente superbo e scenografico l’impatto visivo di questo barocco ormai forzato ai limiti e proteso al rococò, in perfetta sintonia con lo snodo curvilineo della scalinata. Progettata nel 1818 dal gesuita Francesco di Marco e completata nel 1847 da Alessandro Cappellani Iudica, affiancata da giardini di buganvillee, essa ci appare magnifica e imponente, tanto da giustificare l’accostamento con Trinità dei Monti, e guardata dall’alto ha la bellezza di un cameo ritagliato nell’intricato tessuto urbano.
Il progetto risponderà non solo all’esigenza di superare il dislivello tra la parte alta e quella bassa della città, ma anche di amalgamarle, dati i dissidi sulla matricità di S. Pietro e di S. Giorgio che da secoli dilaniavano i fedeli. Dissidi che esprimevano un conflitto più profondo, quello di una borghesia emergente alla ricerca di visibilità, che si riconosceva nella chiesa di S. Pietro, e l’aristocrazia terriera, che in S. Giorgio vedeva affermata la sua appartenenza ad antiche e nobili origini. Possiamo soltanto immaginare gli apparati effimeri che si allestivano durante le feste dei due patroni, gli scampanii, i mortaretti, le macchine teatrali, le bande dei tamburi, le processioni dove sfilavano le statue dei santi, le Confraternite con i loro stendardi, i fedeli in ordine di rango, e infine l’eccitazione dionisiaca che conduceva immancabilmente alle risse e ai linciaggi, la cui posta era la supremazia sul tessuto sociale e in cui sbiadiva la linea di confine tra sacro e profano.
Oggi questo mondo ormai sgretolato ci fa sorridere, lo spettacolo congegnato per stupire, convincere e manipolare è stato sostituito da altri spettacoli altrettanto illusori. Al visitatore rimane la bellezza pura, ormai svincolata da ideologie, la bellezza del paesaggio urbano e la bellezza consumata, ma ancora leggibile, della storia.
Claudia Sudano