Qualche settimana fa accompagno una mia parente, sola e invalida, all’Ospedale per un’improvvisa occlusione esofagea che le impedisce di mangiare e di bere: viene decretato un codice giallo.
Dopo il triage siamo risucchiate nella sala d’attesa, dove il caos regna incontrastato: gli infermieri si affannano ad accogliere nelle barelle infartuati, collassati, incidentati protetti da coperte termiche. Sono tanti, troppi, inevitabilmente ci si scontra, il corridoio è intasato, qualcuno impreca e ordina di fare spazio, ma lo spazio è poco: in tutti gli angoli e lungo le pareti ci sono barelle in sosta, occupate da malati che attendono da ore o da giorni di essere visti dall’unico medico in servizio, esausto ma stoicamente ancora in prima linea. E poi ci sono i parenti, qualcuno rassegnato, qualche altro in vena di protestare o in preda ad un attacco isterico. Dietro uno sportello un impiegato che dovrebbe fornire informazioni si vede assalito da un crocchio di gente che sgomita, supplica, minaccia. Un malcapitato bambino con il piede sommariamente medicato grida che ha fame, ha sete, gli scappa la pipì.
Non è la scena di un ospedale da campo improvvisato in una zona di guerra. E’ il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Modica in un momento di ordinaria follia. La mia perente rimane in barella per tre giorni e due notti, priva di ogni genere di conforto, della possibilità di cambiarsi, appartarsi, dormire. Pare che non ci siano letti disponibili in nessun reparto, in più l’apparecchio per le T.A.C. è fuori uso. Non resta che attendere.
Essere invasi dalla rabbia, dall’impotenza, dall’indignazione è umano, ma serve a poco: gli italiani, soprattutto al Sud, fanno presto ad abituarsi alle iniquità, e ancor più all’idea che queste siano inevitabili, come un alluvione o un cattivo raccolto.
Il collasso del servizio sanitario a Modica è lo specchio di una situazione che in Italia va aggravandosi negli ultimi dieci anni, ma che nel mezzogiorno va ad aggiungersi ai secolari problemi irrisolti della disoccupazione, di un’endemica scarsità di infrastrutture e di una classe dirigenziale per lo più negligente o corrotta. Il de-finanziamento pubblico diventa sempre più imponente, dato che tutti i governi, a prescindere dal loro colore, hanno fatto fronte alle emergenze finanziarie del paese riducendo progressivamente la spesa sanitaria.
Con l’attuale manovra di bilancio i due miliardi o poco più destinati alla Sanità sono pari al 2% rispetto al fabbisogno. Si dirà che sono state fatte altre scelte a fronte di una disponibilità finanziaria molto limitata, ma si dimentica che ci sono delle priorità, e la tutela del diritto dell’individuo alla salute è dichiarata “fondamentale“ dall’articolo 32 della Costituzione. Di fatto la Sanità in Italia, che anni fa era considerata una delle migliori d’Europa, si è andata sgretolando: preceduta a distanza dagli standard scandinavi, francesi, inglesi e tedeschi, oggi l’Italia è seguita solo da Grecia, Polonia, Slovacchia e Lettonia. Questa valutazione riguarda soprattutto la quota minima di personale medico e infermieristico in grado di far funzionare un ospedale, ma si allarga anche allo scandalo delle liste d’attesa, al mal funzionamento o alla scarsità di strumenti diagnostici e terapeutici. Se nel 2010 il rapporto tra P.I.L. e spesa sanitaria era vicino alle media dei valori europei, progressivamente la forbice si è allargata drammaticamente. E dato che il pubblico è nel caos, il privato trionfa, e il proliferare delle assicurazioni private indebolisce ulteriormente il sistema. Chi ne farà le spese? Certo non le classi sociali elevate, accolte in cliniche di lusso e trattate con strumenti e farmaci all’avanguardia, ma quella classe media che sta facendo quotidianamente i conti con rincari astronomici e che va ad aggiungersi ai poveri di sempre, che, in barba alla prevenzione, devono decidere se curarsi o mettere insieme il pranzo con la cena.
Molti errori sono stati fatti, a cominciare dalla scriteriata selezione dei candidati alla facoltà di medicina, alla mancanza di turnover, dall’accorpamento o dalla chiusura delle unità operative, alla scellerata riduzione dei posti letto. Il fuggi fuggi dai Pronto Soccorso di medici che non ce la fanno più a sostenere i ritmi di lavoro è sotto gli occhi di tutti, senza parlare dei nostri giovani medici talentuosi che preferiscono fare le valige a andare all’estero, dove ricevono stipendi più alti e maggiore gratificazione per la loro professionalità.
Secondo Cimo – Fesmed in dieci anni sono stati chiusi 111 ospedali e 113 Pronto Soccorso e sono stati tagliati 37000 posti letto. Nel 2020 sono state erogate 282 milioni di prestazioni in meno rispetto a dieci anni prima, sono diminuite le indagini di laboratorio (-19%), le attività di radiologia diagnostica (-30%), le attività ambulatoriali (-32%), e sono più di 5000 i medici che mancano all’appello in proporzione alla popolazione.
L’ottimizzazione delle aree assistenziali ha prodotto, per fare l’esempio della nostra provincia, un’utenza di più di 320000 pazienti per tre ospedali, che non possono essere soccorsi in tempi ragionevoli, specie quando nelle aree specialistiche i medici superstiti sono pochissimi.
In più, ed è questo il grido d’allarme lanciato dagli esperti del settore, la manovra dell’attuale governo sembra voler riportare la sanità ad un livello di austerità ancora maggiore di quella del governo Monti. E’ vero che sono stati previsti alcuni aumenti per il fondo sanitario nazionale pari a poco più di due miliardi per i prossimi tre anni, ma è altrettanto vero che queste cifre, briciole appena sufficienti a coprire l’incremento del costo dell’energia, non potranno né migliorare né tantomeno risolvere le criticità di una sanità pubblica martoriata da anni di tagli indiscriminati.
I nodi sono venuti al pettine durante la pandemia, con strutture di accoglienza insufficienti ad accogliere i pazienti e carenza di personale medico e paramedico, a cui si è cercato di porre rimedio reclutando studenti in medicina e scienze infermieristiche o contando sulla scelta volontaria e spesso eroica dei medici in pensione. A quanto pare, però, dalla pandemia si è imparato poco o niente: basta consultare i grafici forniti dalla banca dati dell’OCSI per rilevare che non è stata prevista alcuna copertura per le spese sostenute durante il Covid.
Questa politica che trascura il benessere del cittadino, al di là delle considerazioni etiche, finirà per presentare il conto anche in termini di costi, perché è chiaro che migliaia di cittadini che non possono accedere ai mezzi diagnostici a causa dei tempi biblici di attesa e non possono permettersi di ripiegare sul privato, non faranno prevenzione né controlli, pesando sull’economia di un paese già segnato dal rapido invecchiamento della popolazione.
Sembra incredibile che queste considerazioni così ovvie non vengano fatte da chi è chiamato a tutelare il bene più prezioso, la salute, più prezioso degli armamenti, delle infrastrutture, delle grandi opere pubbliche, ma anche della sicurezza e perfino del caro bollette. Occorrono interventi strutturali ben più significativi dei contentini concessi agli stipendi di medici e infermieri a partire dal 2024, altrimenti, di questo passo, ci restano due opzioni: scendere in piazza (improbabile, il Bel Paese incassa con eroica rassegnazione tutte le mazzate governative) o farci curare a HongKong o a Singapore, considerati dall’ultima ricerca Bloomberg Healt Care Efficiency dei veri e propri “paradisi sanitari”.
Claudia Sudano